Andai alla Festa de luFocu di Zollino anni fa, era la prima volta e mi ritrovai a tu per tu con quella luce viva in pieno inverno, quel rito contadino che tutto libera e trasfigura, sempre accogliendo, accettando, lasciando che accada sino alle braci e, poi, alla cenere. Erano anni in cui nessuno, a parte gli scrittori di serie tv distopiche, avrebbe mai potuto immaginare una pandemia, un’altra guerra, tutto quello che abbiamo attraversato in una manciata di tempo che ha lasciato in sospeso molti passaggi dei nostri calendari tradizionali. Credevo che sarebbero stati i grandi eventi di piazza a impressionarmi nel ritorno alla normalità, invece sono stati i circuiti minori, gli incontri in corsivo, certe occasioni per fare festa con poco, portandosi sotto il cielo stellato e nella nebbia, nel freddo e nell’odore di carbonella e pittule appena fiorite nell’olio bollente.
Ci sono tornata qualche sera fa alla Festa de lu Focu e Zollino era piccola come una scintilla, una di quelle che si sollevano spinte dalla combustione delle fascine di legna affastellate in giustapposizione da mani raccontate dentro quelle fotografie di uomini i cui volti sono vocali e consonanti di certi lasciti. Accendiamo ancora il fuoco nei giorni della soglia, il fuoco delle dodici notti, il fuoco buono che anticipa quello di Sant’Antonio Abate, quando tutto è più grande, sfarzoso, spettacolare, in un altro paese, a Novoli.
Ma qui, a Zollino, ho sentito un altro fuoco, tra i volti dei bambini in spalla ai loro padri, nelle pagine ruvide ai lati degli occhi di un vecchio signore che balla la sua pizzica mentre i ragazzi impugnano i tamburelli e brindano col vino scuro o spezzano una sceblasti stando attenti a dove si posa l’accento, vicino al rudere di una casa antica circondata da alberi spogli con la terra ancora viva tutt’intorno ad accogliere bagliori e canti. Vicino a questo fuoco, scorrono gli ultimi trent’anni della nostra storia che ha gli occhi di Giovanni Pellegrino, inventore e gran maestro del fuoco, così come scorrono gli sguardi di tutti i ritornati a casa dopo aver sbarcato il lunario lontano.
Come ogni anno, le leggende scorrono nel sottosuolo, nei pressi del menhir dove forse dorme un capotribù, dove forse vibrano le nostre radici e le nostre storie di macare e semplici esseri umani. Come ogni notte nel cuore dell’inverno salentino ho lasciato anch’io la mia preghiera di ringraziamento al fuoco, affinché sappia sempre convocarci dove possiamo renderci partecipi di una stesura infinita.