Per il mio compleanno un’amica mi ha regalato un albero, è un mango che cresce in Kenya e che qualcuno lontanissimo da noi incrocerà sul suo cammino. C’è un sito in cui fare questo è possibile (treedom.net), di una società italiana che ormai da diversi anni lavora con piccole comunità di agricoltori, occupandosi di compensazione di CO2 tramite piantumazione di alberi la cui crescita può essere monitorata dagli utenti che li acquistano tramite l’e-commerce.
Ad accompagnare la notizia, sul bigliettino, la mia amica ha scritto una frase di Warren Buffet: “C’è qualcuno seduto all’ombra oggi perché qualcun altro ha piantato un albero molto tempo fa”.
Queste parole mi tornano in mente mentre si avvicina come ogni 21 novembre la giornata nazionale dell’albero. Penso al corbezzolo che mi ha protetta dal sole tutta l’adolescenza, al gelso che ho visto piantare in un giorno da ricordare, alla quercia che mi ha riparato in viaggio dalla pioggia, all’albero di limoni che è finito dentro una canzone, ai ciliegi da cui rubare i frutti mangiandoli dopo averli lucidati con la maglietta. E poi al mio preferito di sempre, quello che chiamavamo L’albero dell’amore.
Un carrubo grande che ci accoglieva sui suoi rami e noi, bambine, ci arrampicavamo su di lui ogni volta che dovevamo raccontarci dei segreti, le avventure vissute a scuola, gli scampoli di storie d’amore piccole come noi. Il miglior compagno di giochi della mia infanzia, l’attrazione principale per le amiche che venivano a trovarmi.
É come quando entri nell’acqua del mare e inspiegabilmente ti lasci andare parlando a voce alta, perché non ci pensi per niente che dalla spiaggia ti sentiranno tutti. È un mondo diverso, quello, più nudo, meno educato, più libero.
Bastava sollevarci a un metro da terra sui rami per sentirci in un posto nostro, sicuro, in cui poter lasciare andare i pensieri di fronte a un amico fidato.
I bambini lo sanno da soli, intuitivamente, che l’albero vive, proprio come loro. E noi, a un certo punto, lo dimentichiamo.