«Sia maledetta la politica. Ha distrutto Taranto». Angelo Fornaro, settant’anni, lancia il suo anatema sotto il cielo basso, tra zolle di terra mature come un frutto appena sbucciato, dall’aratro e dalla pioggia. Terra assediata dalle eterne contraddizioni: l’Ilva avvelenatrice a uno sputo; gli ulivi superstiti della mattanza che spianò, negli anni ‘60, la strada allo «sviluppo »; il quartiere operaio, Paolo VI, con i suoi silenzi e i suoi dolori; l’Ospedale Nord, l’ospedale dei bambini e dei lavoratori ammalati di tumore; le gru della speculazione edilizia, l’eterno assalto divoratore alle virtù cantate da Virgilio e Orazio. Angelo guarda con tenerezza la nipote Vittoria gettare i semi di canapa nel terreno bagnato e con un ferro di cavallo disegna arabeschi portafortuna tra le gocce lievi e insidiose che scendono nel sabato mattina.
Dalla masseria, dove la diossina costrinse ad abbattere centinaia di pecore contaminate, sul finire del 2008, sale un suono di cornamusa e intona la colonna sonora dell’«Ultimo dei Mohicani», preghiera in musica per la terra sulla quale si abbattè la biblica maledizione dei fumi, delle polveri e dei pellerossa in fuga. Di padre in figlio, tre generazioni. Anzi quattro. «Mio nonno Francesco, poi mio padre Vincenzo. Ora i miei figli Vittorio, Maria, Vincenzo e Rosanna. Domani Vittoria e Rosa. È una semina lenta» spiega Angelo: «Prima due dita, poi tre. Poi la mano intera. Avanti e a ritroso».
Il futuro e il passato abbracciati, non più divisi, alienati, offesi. Non sono fuggiti, i Fornaro. Non hanno lasciato la masseria «Carmine» e vogliono spezzare l’assedio del male spargendo canapa, tornando a raccogliere frutti. Il progetto è scritto da Canapuglia e dalle risorse regionali ottenute con il bando «Principi attivi». Spesa iniziale 3mila euro (fioritura in 180 giorni). Sorride il presidente Claudio Natile e l’ingegnere ambientale Marcello Colao ha un sogno: «Iniziamo con tre ettari e contiamo sulla virtù della canapa di bonificare il terreno dai metalli pesanti e rigenerarlo, preservando la falda acquifera. Poi si potrà pensare di estendere la coltivazione ad altre piante disinquinanti: lino, amaranto, kenaf».
Si ricomincia dalla masseria simbolo del disastro ambientale tarantino. «Semina del futuro » dice il co-portavoce dei Verdi Angelo Bonelli. Per i Fornaro propone il premio Onu «Campioni della Terra». E l‘assessore regionale Guglielmo Minervini scrive parole d’apprezzamento sul social network Facebook: «A che servono le idee? Per esempio, a immaginare che la canapa sia l'unguento giusto per restituire vita a una terra intossicata dalla diossina». Vincenzo Fornaro ricorda l’udienza preliminare del processo ai Riva: «Avremo giustizia » e guarda con orgoglio i cavalli per il prossimo traguardo: l’ippoterapia. Gli ultimi animali rimasti nello scenario d’incanto che ha resistito alla «grande bruttezza» tarantina: il frantoio cinquecentesco, i capasoni, una masseria highlander immortale di calce bianca e storie secolari di sole e di vita.
«Tutto cominciò nel 1960, quando perdemmo i 110 ettari della “Zitarella”, la campagna si chiamava così. Furono espropriati per far posto al siderurgico. Mio padre - torna a raccontare Angelo - morì di crepacuore. Mia moglie Rosa mi ha lasciato nel 2003: tumore al seno. Io la mia terra non l’abbandono». E mentre segue la nipote con lo sguardo, il suo allegro confondere la semina e il gioco, sospira: «Voglio morire qui».