ROMA - Cosa succederebbe se domani una qualunque Regione, attuando l’autonomia differenziata in materia di coordinamento della finanza pubblica e potendo contare su risorse tributarie proprie, decidesse di eliminare il ticket sanitario per i propri cittadini? O se prendendo in mano la gestione della Protezione civile stabilisse - con le stesse risorse - criteri di intervento diretti in caso di calamità naturale? Che si creerebbe uno squilibrio immediato (e insanabile) rispetto a tutti gli altri italiani. Questo è il tema che la Puglia (oltre a Campania, Toscana e Sardegna) ha portato davanti alla Corte costituzionale per scardinare la legge Calderoli sull’Autonomia differenziata: facendo emergere, già nell’udienza di ieri davanti ai 13 giudici della Consulta, uno scontro insanabile rispetto a Veneto, Lombardia e Piemonte che proprio dalla Protezione civile vogliono cominciare a fare da sé, anche senza attendere la fissazione di quei Lep (Livelli essenziali di prestazioni) che dovrebbero garantire il minimo di servizi su tutto il territorio nazionale. E la decisione dei giudici delle leggi potrebbe arrivare già stasera.
«La Costituzione - ha argomentato il professor Massimo Luciani, l’avvocato scelto dalla Puglia per sollevare il conflitto diretto nei confronti di una legge che “distrugge la logica cooperativa del nostro regionalismo” - non parla mai di materie ma di diritti. Sono i diritti che reclamano la fissazione dei livelli essenziali, non le materie. E i diritti non possono dipendere dalle risorse disponibili». Luciani lo ha detto polemizzando tanto con le tesi espresse da Palazzo Chigi (secondo cui non c’è «pericolo», anche perché la cessione di materie alle Regioni è «sempre revocabile»), tanto con quelle di Veneto, Lombardia e Piemonte che la Consulta ha ammesso a partecipare al procedimento nonostante la giurisprudenza costituzionale non preveda interventi nelle impugnazioni dirette. Ma qui, nel palazzo che affaccia sulla piazza del Quirinale, si gioca una partita che non può ammettere alibi: la decisione influenzerà in un modo o nell’altro gli equilibri nella coalizione del governo Meloni, con la Lega che vuole correre sull’attuazione e Forza Italia che invece frena.
Quello lanciato dalla Puglia attraverso un ricorso di enorme spessore tecnico (a cui tutti, infatti, hanno fatto riferimento in udienza) è un avvertimento molto «politico»: attenti - sostiene la Regione - perché è la garanzia dei diritti da riconoscere ai cittadini a incidere sui bilanci dello Stato, e non i bilanci a stabilire (limitare) i diritti concedibili. «La tesi di Palazzo Chigi - ha attaccato Luciani, affiancato nella difesa della Puglia dall’avvocato Rossana Lanza - è, in soldoni, che vi sarebbero materie nelle quali non si ravvisa l’esistenza di diritti. E dire che “l’indirizzo politico statale è libero di scegliere i diritti in relazione ai quali definire i Lep”, come fa la Regione Piemonte, desta il massimo sconcerto».
La leva con cui Luciani prova a sollecitare la Consulta a cancellare tanto la legge Calderoli quanto a sollevare questione di incostituzionalità del comma 3 dell’articolo 116 della Costituzione (quello modificato nel 2001 da un governo di centrosinistra) è che l’attuazione dell’Autonomia finirà per drenare risorse dello Stato (perché inciderà su uno dei tributi erariali, probabilmente l’Irpef) senza produrre un corrispondente risparmio di spesa. E questo sarebbe proprio quello che vogliono le Regioni del Nord, perché avendo di più potranno spendere di più a loro piacimento.Questa impostazione «presuppone l’idea che meritevoli di autonomia particolare siano solo le Regioni con un residuo fiscale positivo, quasi fossero più virtuose, quando invece il residuo fiscale positivo indica il semplice fatto che sono ricche e popolose». E allo stesso tempo «impedisce alle Regioni meno ricche o meno popolose di accedere all’autonomia, perché la loro compartecipazione può essere insufficiente». Se infatti lo Stato dovesse lasciare ai territori l’Irpef, alla Lombardia basterebbe il 15% ma la Calabria dovrebbe essere garantito il 67%. La Regione Piemonte ha sostenuto che si potrebbe ovviare a questo problema semplicemente lasciando al Sud una quota: un rilievo che Luciani ha definito «derisorio».
«Questa legge - ha ribattuto uno degli avvocati della Regione Veneto, Mario Bertolissi - non toglie garanzie ma cerca di sburocratizzare. La scommessa è far funzionare meglio le cose». E per il Piemonte, con l’avvocato Marcello Cecchetti, «le loro tesi (delle Regioni ricorrenti, ndr) non ci convincono e ci pregiudicano».
In coda di una lunga udienza durata fino al tardo pomeriggio il giudice Luca Antonini (ordinario di diritto costituzionale, di Varese, nominato nel 2018 in quota Lega) ha fatto tre domande agli avvocati delle Regioni. Al professor Luciani ha chiesto di spiegare perché le stesse obiezioni odierne non sono state sollevate all’epoca dell’attuazione dei Lep per le Regioni a statuto speciale. Al Veneto ha chiesto di chiarire come si coniuga l’autonomia con l’equilibrio finanziario delle «altre» Regioni. È possibile che l’attesa possa essere ancora meno lunga di quella, già breve, ipotizzata alla vigilia. Il collegio (relatore è Giovanni Pitruzzella) si riunirà stamattina in camera di consiglio e già stasera il presidente Antonio Barbera (uno dei tre giudici in scadenza di mandato il mese prossimo) dovrebbe ufficializzare la sua decisione con un comunicato stampa. La sentenza dovrebbe arrivare entro metà dicembre, comunque prima dello scrutinio sull’ammissibilità dei referendum abrogativi. Referendum che un’abrogazione anche parziale della legge Calderoli potrebbe far decadere. Il governatore Michele Emiliano si è detto «fiducioso» sull’accoglimento del ricorso «perché è evidente che si tratta di un provvedimento che crea disuguaglianze molto gravi e mette le Regioni più povere in difficoltà rispetto a quelle più ricche».