Fare della propria passione un lavoro: chi non lo ha sognato? Ma in quanti sono poi capaci di passare dal sogno alla realtà? Serve una buona dose di coraggio, tanta costanza, un pizzico di follia e, come nelle più autentiche ricette della nonna, fortuna quanto basta. Alessandra Sprovera, Lorenzo Amato, Rocco Calamita e Antonio Carlucci, questi ingredienti li hanno tutti, oltre ad una solida base di versatilità, che ha permesso loro di passare dai loro impieghi quotidiani, a quello che nel tempo si è rivelato più di un hobby.
Come è andata?
«Diversi anni fa, quasi per gioco, decidemmo di produrre birra in casa. Eravamo già all’epoca amanti di questa bevanda che, peraltro, offre un panorama più variegato di gusti rispetto al vino: esistono, infatti, birre dolci, amare, speziate, acide. Pensammo di sperimentare cosa riuscissimo realmente a fare da soli, in scala ridotta ovviamente, ma senza alterare il procedimento: dalla mistura di acqua e malti macinati, separare la parte liquida, messa poi a bollire con i luppoli. Al mosto così ottenuto, una volta raffreddato, aggiungere lieviti per la fermentazione».
Come andò l’esperimento?
«Piuttosto bene e piano piano, complici anche i primi successi, ci siamo appassionati. Abbiamo iniziato a frequentare corsi di degustazione Unionbirrai, seminari, studi, a confrontarci sulla produzione, stringendo rapporti con birrai professionisti. Non ci conoscevamo già tutti e quattro tra noi, le nostre strade si sono incrociate proprio frequentando il “settore”: il feeling è nato subito e, dalla ricetta al bicchiere, ci accorgemmo di lavorare molto bene insieme. Sempre con l’obiettivo di crescere e migliorarci, facemmo assaggiare le nostre birre ad esperti del campo. Ebbene, degustatori professionisti non solo non bocciarono le nostre creazione, ma addirittura le promossero a pieni voti!».
Quando la svolta?
«Nel 2017 sentivamo fosse arrivato il momento di metterci in gioco e avviamo il progetto SenzaTerra per portare il nostro prodotto e il nostro modo di vivere la birra artigianale nel bicchiere del consumatore».
Perché questo nome?
«Per due motivi: innanzitutto perché non abbiamo un impianto di produzione di nostra proprietà, ma ci facciamo “ospitare”, di volta in volta, da diverse strutture, seguendo in prima persona la produzione. Naturalmente le ricette sono le nostre, sia in termini di materie prime impiegate che di processo, ma c’è un continuo e stimolante confronto con i birrai che ci ospitano. Non abbiamo un solo impianto di riferimento, perché la produzione della birra non impegna una sola giornata: la fermentazione, ad esempio, occupa un fermentatore per diverso tempo. Di qui la necessità di diversificare, per non creare interferenze con le produzioni del birrificio ospitante. Ma c’è anche un altro motivo che spiega questo nome: uno di noi è materano, quindi, dopo tanto lambiccarsi, abbiamo pensato che SenzaTerra non facesse torto a nessuno e non alimentasse sciocche rivalità di campanile».
E dunque qual è il giudizio su questi tre anni?
«Buono, non possiamo lamentarci, soprattutto perché il tutto è nato per passione. Abbiamo sondato il mercato e siamo soddisfatti: tutti svolgiamo altri lavori, quindi è stato un successo a maggior ragione. La cultura della birra artigianale, inoltre, è un po’ in ritardo qui in Lucania, ma ha trovato ugualmente un terreno fertile, con appassionati non solo tra i più giovani. Lo stesso concetto di bevanda artigianale, mai uguale a se stessa proprio perché artigianale, adesso è diventato un valore aggiunto rispetto ai grandi marchi».
Dove si possono trovare le vostre “creature”?
«Non c’è un luogo fisico, facciamo per lo più vendita all’ingrosso, rifornendo alcuni locali di Potenza e Matera, e anche delle province. Qualcosa vendiamo anche fuori regione, in Campania, Puglia e Calabria».
Insomma, per essere un hobby è andata bene: progetti per il futuro?
«La pandemia da coronavirus ci ha un po’ frenato, come è ovvio, ma adesso torniamo in pista: il sogno sarebbe quello di tramutare questa passione in un lavoro a tutti gli effetti. Per scaramanzia, però, non diciamo nulla, nella speranza di poter brindare presto!».