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Inchiesta discariche, sette condanne per la «Monnezzopoli»

 
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Inchiesta discariche, sette condanne per la «Monnezzopoli»

Il giorno degli arresti

L'inchiesta sulle stazioni di trasferenza di Tito e Tricarico

Sabato 08 Dicembre 2018, 11:42

Si è concluso con una condanna ad un anno (pena sospesa) e l’interdizione degli imputati dai pubblici uffici, per la stessa durata della pena principale, il processo sulla cosiddetta «Monnezzopoli». La condanna riguarda Giovanni Agoglia, Giovanni Castellano, Cosimo Guida, Gaetano Antonio Papaleo, Ida Zecconi, Raffaele Rosa (pena sospesa) e Paolo D’Angelo per traffico illecito di rifiuti in relazione a un’inchiesta del 2012 sulle attività di smaltimento e conferimento in discarica. Tiziana Ferretti è stata invece assolta per non aver commesso il fatto. Gli imputati sono stati assolti dall’accusa di associazione per delinquere e truffa nei confronti dei Comuni, perché il fatto non sussiste. Il pm aveva chiesto pene fino a sei anni di reclusione.

«Monnezzopoli», lo ricordiamo, è l’inchiesta sulle discariche che nel 2012 portò al sequestro della stazione di trasferenza di Tito e all’arresto dei titolari di società impegnate nel settore dello smaltimento e dei gestori delle piattaforme per i rifiuti: Agoglia, titolare dell’Ageco e della B&B Eco e gestore della stazione di trasferenza di Tito (la discarica temporanea dove vengono accumulati i rifiuti prima di finire in discarica. Lì la legge impone di vagliarli e differenziarli (cosa che, secondo l’accusa, non accadeva), Castellano, titolare della Castellano costruzioni generali, e Guida, titolare dell’azienda che gestiva la discarica di Tricarico. Papaleo, invece, finì ai domiciliari. Per gli altri furono attivate altre misure come l’obbligo di firma.

La Procura ritiene che sia stata messa in piedi una truffa con risvolti ambientali. Un sistema di connivenze, silenzi e negligenze scoperto dai carabinieri del Noe. Tutto ruotava attorno al pianeta discariche: compensi annui di circa 4,5 milioni di euro, percepiti dagli enti locali, per smaltire rifiuti solidi urbani senza trattarli prima del conferimento. In sostanza, incassavano i soldi pubblici per garantire la «vagliatura» dell’immondizia, vale a dire il processo di separazione e parziale recupero dei rifiuti (inerti, metalli e frazione organica) allo scopo di ridurre la quantità di materiale da depositare in discarica. Operazione che, secondo l’accusa, non è stata mai fatta. L’iter previsto dalla legge imponeva la separazione dell’immondizia e la vagliatura, cosa che invece non avveniva, poichè tutto veniva portato e scaricato senza trattamenti nelle discariche lucane. Una parvenza di legalità, che non è passata inosservata ai controlli dei carabinieri, gliela dava un falso codice che avrebbe dovuto attestare il trattamento. I contributi dagli enti locali venivano però regolarmente percepiti.

Per questo, oltre all’accusa di traffico di rifiuti, è scattata anche quella di truffa. Il gip, dopo gli interrogatori di garanzia, respinse quasi tutte le richieste di remissione in libertà presentate dagli avvocati degli indagati, lasciando intatto l’impianto accusatorio e quasi intatto quello cautelare.

Secondo il gip di Potenza - che condivise integralmente la richiesta avanzata dai pm - «è facilmente intuibile la gravità delle conseguenze in termini di impatto ambientale solo se si pensi al fatto che i rifiuti, immessi in discarica senza alcuna vagliatura, vengono stoccati e riversati unitamente a tutti i materiali ferrosi e comunque tossici mischiati con il rifiuto fin dall’origine». C’era, insomma, il rischio di inquinamento del suolo e della falda circostante alle discariche.

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