FOGGIA - Vivono in baracche di fortuna, fatte di lamiera, plastica e cartone, in condizioni igieniche indescrivibili, ma si ostinano a non volere andare via dal gran ghetto di Rignano perché è lì che ogni mattina arrivano i caporali per reclutare la manodopera da portare al lavoro per pochi euro nei campi della Capitanata. Per questo la scorsa notte Mamadou Konate e Nouhou Doumbia, trentenni del Mali, erano ancora lì, nel ghetto in fase di sgombero da tre giorni, come centinaia di altri 'irriducibilì, quando sono stati sorpresi e uccisi dall’incendio che in poco tempo ha avvolto e distrutto le loro baracche.
«Noi vogliamo lavorare e dormine nel ghetto», spiega oggi 'Alfà un giovane della Costa D’Avorio che è scampato al rogo ma che, fino all’arrivo delle ruspe che oggi hanno abbattuto tutto, si è rifiutato di allontanarsi dalla baraccopoli, anche in cambio di una sistemazione dignitosa. Il giovane si trova in Italia da circa 10 anni e da diverso tempo vive nel gran ghetto. "Ieri abbiamo incontrato il prefetto di Foggia, e abbiamo detto di essere anche disponibili a lasciare la baraccopoli - racconta - ma di non avere un posto in cui andare perché», spiega, «le due strutture messe a disposizione contengono in totale 110 posti, non sufficienti ad accogliere tutti i migranti del ghetto».
In verità, più che il timore di restare senza un tetto, a spingerli a restare è la paura di allontanarsi dal luogo in cui i procacciatori di mano d’opera sanno di poterli trovare tutti insieme. A confermarlo è don Andrea Pupilla, direttore della Caritas diocesana di San Severo, nel cui territorio ricade la baraccopoli e che ospita in una sua struttura 54 migranti venuti dal ghetto. «Hanno accettato la proposta di uscire dal ghetto - dice don Andrea - però sono un pò disorientati, non capiscono cosa sta accadendo: il loro bisogno più grande è il lavoro e lì lo trovano tramite i caporali». «Ma questa è una sconfitta per tutti - conclude - perché vuol dire che i caporali sono capaci di dare più lavoro rispetto alla società».