TORRE SAN GIOVANNI (UGENTO) - «Ho ammazzato il bambino, vieni a prendere il suo corpo. Adesso mi ammazzo anch’io». L’orrore arriva alle 12, nella casetta delle vacanze bianca e gialla, alla periferia della marina di Ugento. Lui, il padre, Gianpiero Mele, 25 anni compiuti il 2 giugno, fresco laureato in economia, al telefono è freddo come la morte. Parla con la compagna, Angelica Bolognese, con la quale conviveva fino a due giorni fa. «Ho ammazzato Stefano, ora tocca a me». Stefano, il bambino, è nato il 6 aprile 2008. Una gioia di bambino. Angelica, di due anni più giovane del compagno, capisce che non è uno scherzo. Il tempo di avvisare il padre, maresciallo della guardia di finanza: «Papà, Stefano è in pericolo». Poi le telefonate al 118 e ai carabinieri.
Piangono i medici, appena arrivano nella casetta al primo piano di Monte Pollino, lungo una schiera di case costruite 15 anni fa in pieno boom turistico. Piangono i carabinieri di Ugento e Casarano giunti in pochi minuti. Il corpicino di Stefano è su di un lettino, di quelli che si comprano all’Ikea, in un lago di sangue. La testa è ripiegata di lato. Stefano era stato vestito per bene, la mattina. Aveva dormito nel letto del nonno, un giovane sottufficiale della guardia di finanza. Poi aveva fatto colazione con i biscotti comprati per lui. Indossava i pantaloncini di jeans, una magliettina e stava senza scarpe. Ma l’orrore, quando arriva senza preavviso, soprattutto quando proviene dalle persone più care, assume i simboli più terribili. Il piccolo volto è coperto dal sangue, il colore della magliettina è scomparso. Ha fatto le cose per bene il padre, diventato il macellaio del proprio figlio. Prima ha tentato di impiccarlo nel bagno, forse lo ha strangolato, poi lo ha sgozzato come un agnellino, con un taglierino. La casetta, di proprietà dei genitori di Gianpiero (il papà è Giuseppe Mele, di Taurisano, un infermiere dell’ospedale di Tricase), oltre al bagno, ha due stanze e un cucinino. C’è sangue ovunque. Forse è il sangue di Gianpiero che, malgrado il furore, non è riuscito ad ammazzarsi: si è tagliato le vene sì ma senza farcela a morire, forse si è trascinato da una stanza all’altra lasciandosi dietro una scia di sangue.
Il giovane aveva pianificato per bene il terrore. Di buon mattino è andato a Giorgilorio, un quartiere di Surbo attaccato a Lecce, a casa dei nonni materni. «Porto il bambino al mare», aveva detto rassicurante. Un’ora di strada con la Twingo grigio chiara. Ha fatto tutto con precisione Gianpiero. Lucido e spietato.
All’entrata di Torre San Giovanni si è fermato in un negozio di ferramenta. Ha comprato un coltello, un cutter , di quelli usati per tagliare la carta. Costo un euro e mezzo. Poi ha acquistato dieci metri di corda di nylon. Tutto questo è avvenuto in dieci minuti, dalle 10,55 alle 11,06. Movimenti registrati dalla videocamera interna al negozio. Il piccolo Stefano, invece, era stato lasciato nell’auto parcheggiata all’esterno.
C’è un lato oscuro in ciascuno di noi, avvisa la psichiatria. Una zona grigia nella quale può svilupparsi l’inferno. Gianpiero non accettava la separazione con Angelica. Ombroso, furioso, prigioniero delle passioni e delle pulsioni irrazionali. Capace di fare il male e di farsi del male. Ha congegnato tutto in modo macabro, il giovane incapace di affrontare la vita. Ha scritto anche una lettera, firmata da lui e dal piccolo Stefano: «Addio, chiedo scusa», scrive rivolto alla compagna. Chiede scusa, ma scrive anche di altro, in modo disordinato e inconcludente, forse rimprovera Angelica per storie del passato, forse pensa nell’inferno del suo cuore che Stefano è figlio di qualcun altro. «Chiedo scusa, non ce la faccio». Nella tragedia greca è la donna, Medea, che ammazza i figli per vendetta contro Giasone, responsabile di averla tradita e oltraggiata. Nel tempo moderno è l’uomo a non accettare il rifiuto. C’è tanto disordine nella casetta delle vacanze di monte Pollino. Non c’è neanche un fiore nei vasi di cemento. Lo stesso disordine e la stessa aridità di Gianpiero, incapace di accettare lo scacco e di controllare le pulsioni di morte.