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Se nel cuore della notte batte il tempo di uccidere

 
OSCAR IARUSSI

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OSCAR IARUSSI

Se nel cuore della notte batte il tempo di uccidere

Lo scrittore Nicola Lagioia

«La città dei vivi», il romanzo-reportage del barese Nicola Lagioia

Domenica 15 Novembre 2020, 14:02

«Predatore del lutto, uomo», recita una laconica, penetrante massima di Elias Canetti che riporta al tragico la nostra stessa radice antropologica. Il delitto come dimensione non eccezionale, anzi, consueta, quotidiana, orrida eppure per così dire «normale».

Vien da pensare a Canetti a proposito del nuovo libro del barese Nicola Lagioia, La città dei vivi, incentrato sull’assassinio di Luca Varani (Einaudi ed., pp. 459, euro 22,00).

Nella notte tra il 4 e il 5 marzo 2016, nel quartiere Collatino della prima periferia romana, il ventitreenne Varani fu dapprima stordito con un potente farmaco, quindi seviziato a colpi di martello e colpito da decine coltellate. Morì fra sofferenze atroci, «oltre la soglia dell’umanamente comprensibile». I colpevoli? Due giovani di qualche anno più grandi della vittima: Manuel Foffo, nel cui appartamento si consumò l’omicidio e che sta scontando una pena a trent’anni di carcere, e Marco Prato, suicida nel giugno del 2017 in una cella del carcere di Velletri.

È con ogni evidenza uno di quei casi della cronaca nerissima in grado di scatenare l’interesse morboso dell’opinione pubblica o meglio (leggi: peggio) del «pubblico» tout court. Gli istinti belluini dei mass media conducono chicchessia a intrupparsi nella platea, tanto più quando il macabro tocca corde che per quanto diaboliche possono risuonare «familiari» agli spettatori. Le alterazioni dello stato di coscienza indotte dalla cocaina assunta in grande quantità da Foffo e Prato bastano a «spiegare» in qualche modo la crudeltà inusitata dell’assassinio? E ha un peso la dimensione sessuale del festino finito nel sangue?

Quanto conta, d’altro canto, il gioco del potere esercitato da due ragazzi di buona famiglia sul borgataro che accetta l’invito nell’appartamento per fare una «marchetta» omosessuale e guadagnarsi centocinquanta euro?

Tre storie e intorno una città fondata sul mito fratricida di Romolo e Remo, mondi che s’incontrano nella notte di Roma che in quel periodo è senza sindaco, ma ha due papi, mentre nelle strade gli autobus cominciano a prendere fuoco all’improvviso. Figlio adottivo di una coppia di persone umili e amorevoli, Luca Varani era fidanzato da molti anni con una brava ragazza del suo medesimo ceto sociale e lavorava in una carrozzeria, conducendo una vita abbastanza tranquilla. Foffo appartiene a un nucleo della piccola borghesia dai modi un po’ spicci, benestante grazie ai ristoranti aperti dal padre, con cui Manuel è in perenne disaccordo. Prato è il rampollo colto e trasgressivo di uno stimato manager culturale di area progressista e a sua volta si sente rifiutato dalla madre, la quale non ne accetta l’eclettismo ammaliato dalla voce e dal destino di Dalida, la vocazione al travestimento, il pathos dell’organizzatore di serate transgender nei club della capitale.

Un triangolo molto meno insolito o inconsueto di quanto i benpensanti possano ritenere. La mistura diventa esplosiva quando s’innesca il detonatore della perversione mentale e delle visioni tossiche dei due assassini alla ricerca frenetica e casuale di un «terzo», cioè di un corpo sul quale esercitare il delirio di onnipotenza erotica. Manuel e Marco inseguono l’obiettivo mandando messaggi a casaccio su WhatsApp, vagando, sniffando «piste» una dietro l’altra, bevendo vodka, finché non è Luca a lasciarsi irretire.

Lagioia comincia a occuparsene per un’inchiesta commissionatagli da un settimanale poco dopo la terribile vicenda e, scrive nel libro, non se ne libera più negli anni a seguire che lo porteranno lontano dalla capitale, a Torino per dirigere il Salone del Libro. Viene dall’aver vinto il premio Strega nel 2015 con La ferocia (Einaudi 2014), romanzo ambientato in Puglia sulla patologia del lessico famigliare, con sconfinamenti nell’etologia comparata: l’umanità è animale... Gabbiani voraci, piccioni, ratti erano nella Ferocia e ricompaiono nella Città dei vivi a scandire il «tempo di uccidere» (sì, Flaiano). Stavolta la forma del romanzo ha un andamento giornalistico che collaziona una messe impressionante di testimonianze delle persone coinvolte (i familiari e gli amici degli assassini e della vittima), nonché esiti investigativi, atti processuali, consulti psicologici, opinioni e finanche dicerie.

Ma il romanzo è altresì un non romanzo, è reportage, è testo corale come nel teatro antico e come nei post su Facebook, è autobiografia di certe esperienze giovanili di confine, ossia è una sorta di prolungata trance dell’autore nell’elemento ctonio e archetipico del dolore e della violenza. Fa testo la bellissima pagina al cospetto del Mosè di Michelangelo nella basilica di San Pietro in Vincoli, cui si accede salendo una scalinata sempre in ombra che qui conduce al baleno di un’intuizione narrativa.

I due predatori e la preda sono infine parimenti sottratti a una consolatoria elaborazione del lutto o a un inquadramento metaforico nei termini della gioventù perduta o bruciata, e restituiti alla spietata realtà i cui contorni si definiscono grazie alla compassione dell’autore per i vivi e i morti, a una pietas quasi pasoliniana. Ci pare infatti di cogliere in questo libro gli echi del Dopostoria di Pasolini fra l’Appia e la Tuscolana, pur senza il rimpianto del poeta per il perduto mondo contadino, ma anche del Fellini girovago nel lato oscuro della Dolce vita e prima ancora di Carlo Levi di L’orologio, magnifico romanzo sul fallimento delle speranze del dopoguerra («La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni»).

Matrici non meno presenti del celebre A sangue freddo di Truman Capote con la sua analisi di un efferato crimine Anni ‘60 e in filigrana del tramonto del sogno americano.

Dalla Storta a San Vittore, da Torre Spaccata a piazzale Clodio, dalla Casilina a Termini, Roma in La città dei vivi non è scenario, ma fondamento, sostanza, materia della drammaturgia nitida e coinvolgente. Scrive Lagioia: «La pioggia a Roma ricorda a tutti che la modernità è un battito di ciglia nell’infinito svolgersi del tempo... Per chi abita qui la fine del mondo c’è già stata, la pioggia ha solo il fastidioso effetto di rovesciare dal bicchiere un vino che in città si beve di continuo». Un impero di rovine che non smettono di disfarsi sotto i nostri occhi, fantasmi nel labirinto del pensiero e quel ragazzo, Luca Varani, morto perché?

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