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Da Mussolini al virus, l'Italia che combatte nel nuovo libro di Bruno Vespa

 
Bruno Vespa

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Da Mussolini al virus, l'Italia che combatte nel nuovo libro di Bruno Vespa

Esce oggi per Mondadori: la tesi sul fascismo nel Belpaese e il racconto dell'arrivo della pandemia

Giovedì 29 Ottobre 2020, 12:43

Esce oggi il nuovo libro di Bruno Vespa da Mondadori: ha il titolo «Perché l’Italia amò Mussolini (e come ha resistito alla dittatura del virus)». Si divide in 14 capitoli: otto sono dedicati al consenso interno e internazionale che Mussolini ebbe tra il 1925 al 1946; sei al Covid, dal suo primo apparire fino al 24 ottobre quando il libro è stato chiuso. Abbiamo scelto due brani, uno sul consenso internazionale e Mussolini e uno sul «paziente 1» di Codogno Mattia Maestri, sua moglie Valentina e la dottoressa Annalisa Malara che per prima fece la diagnosi.

di Bruno Vespa

Nonostante nel 1927 fosse ormai a tutti gli effetti un dittatore, Mussolini era apprezzato da statisti e giornali stranieri. Il 15 gennaio ricevette a palazzo Chigi Winston Churchill, in quel momento cancelliere dello Scacchiere, cioè ministro delle Finanze del governo britannico. Churchill «si presento senza sigaro, né mai ne accese uno durante il colloquio che durò un’ora di orologio» racconta Quinto Navarra in Memorie del cameriere di Mussolini. In realtà, Navarra non è mai stato il cameriere di Mussolini. Era primo commesso al ministero degli Esteri, quando nel 1922 il Duce ne prese l’interim. Fu amore a prima vista e Navarra lo seguì fino a Salo, presidiando la sua anticamera…
Ma torniamo a Churchill. L’indomani il Duce ne ricambiò la visita all’ambasciata britannica e fu l’ultima volta che i due s’incontrarono. In una conferenza stampa tenuta qualche giorno dopo, il cancelliere britannico dichiarò di apprezzare la vittoria italiana contro «gli appetiti bestiali del leninismo», sostenne che «è perfettamente assurdo dichiarare che il governo italiano non si posi su una base popolare o che non sia sorretto dal consenso attivo e pratico delle grandi masse». Concluse dicendosi «affascinato» da Mussolini: «E’ facile accorgersi che l’unico suo pensiero e il benessere durevole del popolo italiano». Sempre nel gennaio 1927 George Bernard Shaw scrisse sul Daily Mail: «Il popolo era tanto stanco dell’indisciplina e della vacuità parlamentare, che sentiva il bisogno di una tirannia efficace. L’onorevole Mussolini e il suo adorato tiranno ». E il 18 maggio lo storico John Spargo – biografo di Karl Marx e cofondatore del Partito socialista americano, poi passato ai repubblicani – si profuse in complimenti sul New York Times: «Mussolini oggi è l’uomo piu straordinario del mondo e la sua figura è cosi dominante che nessuno studioso di storia può considerarla con indifferenza». Samuel Sidney McClure, celebre giornalista investigativo americano di origine irlandese, si recò a Milano a esaminare otto annate del Popolo d’Italia, dal 1914 al 1922. Scrisse ad Arnaldo, fratello di Benito e direttore del giornale, che la storia di quegli anni era «stupefacente» e concluse: «Amo vostro fratello più di ogni altro uomo che io abbia incontrato, eccettuato Theodore Roosevelt, che ho servito per trent’anni». Perché accadeva tutto questo? Ancora una volta occorre guardare la carta geografica. L’Italia è sempre stata considerata un paese strategico per gli equilibri mondiali. Se nel primo dopoguerra nel Partito socialista italiano avesse prevalso la maggioranza leninista, il nostro paese sarebbe stato perduto per l’Occidente. Per politici e osservatori occidentali, quindi, la soppressione della libertà politica in Italia per opera di un dittatore amico dell’Occidente era preferibile alla scelta bolscevica, che difficilmente avrebbe garantito la dialettica democratica.

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«La mattina del 20 febbraio ero di turno all’ospedale di Codogno. Erano le 10. Prima di incontrare Mattia avevo studiato le immagini radiografiche dei suoi polmoni ed ero rimasta impressionata dallo sviluppo rapido e drammatico della malattia. In due soli giorni la piccolissima polmonite registrata nel polmone destro al pronto soccorso era diventata una polmonite bilatera- le devastante. Dei polmoni era rimasto pochissimo. Quando vidi Mattia, aveva la mascherina facciale e il sacchettino dell’ossigeno. Mi colpirono due cose: gli occhi iniettati di sangue e un relativo benessere nel respiro, nonostante il quadro tac fosse drammatico. Avremmo imparato a riconoscere questi dettagli in tutti gli ammalati di Covid. Dico a Mattia che la sua polmonite è peggiorata molto, dobbiamo ricoverarlo in rianimazione e intubarlo. Lui è spaventato, si commuove: «Dottoressa, sto morendo? Io non posso morire, perché ho una moglie incinta all’ottavo mese». «E allora che gli prometto che non morirà». Mattia: «Io sono per i giudizi molto netti. O e bianco o e nero. Per un attimo ho pensato che fosse finita. Ma è stato solo un attimo. Mi sono fatto forza: mi risveglierò, sarò un uomo libero. Pensavo a Valentina, a Giulia che doveva nascere, ai miei genitori». Valentina: «Ricevo la telefonata in cui mi si dice di andare in ospedale quando ero a un minuto da lì. Stavo andando a un corso preparatorio al parto. Mi dicono subito che Mattia si e aggravato e che non si riesce a capire perché i valori si siano alterati cosi rapidamente. Indosso la mascherina, entro in reparto, Mattia ha ancora il casco prima di essere intubato, ma riesce a farsi capire. Mi chiede di avvisare i suoi genitori e di non farli preoccupare troppo». Annalisa Malara: «Stavo pensando a una polmonite di origine virale, quando mi chiama Laura Ricevuti, la collega internista che aveva avuto Mattia in reparto.
«La moglie di Mattia dice di ricordare una cena con un amico tornato dalla Cina…». Valentina entra agitatissima nel mio studio. Non riesce a parlare. Tra una frase e l’altra trattiene il respiro, temo che svenga. In quel momento e di una fragilità estrema, cerco di usare parole caute per non spaventarla ulteriormente. Le dico che ci sono tante possibilità per aiutare suo marito e che il ricovero in terapia intensiva è la scelta migliore. Valentina si tranquillizza e racconta della cena avvenuta due settimane prima del ricovero del marito. Tra le tante persone c’era un collega del marito che era tornato dalla Cina quindici giorni prima. Era stato a un migliaio di chilometri da Wuhan, in una zona non epidemica. Per di più, quella sera era seduto distante da Mattia. Quel collega, peraltro, stava bene, non aveva nessuna sintomatologia. «Il collegamento era molto labile, ma la polmonite di Mattia era strana, mai vista. Avverto il mio primario, Enrico Storti. Anche lui trova singolare lo sviluppo di questa malattia. Vorrei fare un tampone, ma non e previsto dal protocollo. Anzi, fino a pochi giorni prima l’Istituto superiore di sanità prevedeva la possibilità di fare tamponi in caso di polmoniti gravi senza una causa nota, ma poi il protocollo era stato corretto: il tampone era riservato ai pazienti tornati dalla Cina nelle due settimane precedenti o affetti da Coronavirus. Mattia non rientrava in nessuna delle due categorie, ma dico a Storti che non possiamo escludere che sia stato raggiunto dal virus. «Se pensi che sia una polmonite virale, facciamo il tampone» mi risponde. Tuttavia ci poniamo il problema di non creare allarmismo. «Chiamiamo l’ospedale Sacco a Milano e l’Ats Lombardia, l’Agenzia per la tutela della salute. Mi ripetono che il protocollo non prevede tamponi. Alla fine, tra l’incredulità e lo scetticismo, mi dicono: se ritiene di doverlo fare, lo faccia. Isoliamo Mattia come se fosse positivo, noi ci bardiamo come si conviene e gli facciamo il tampone. Alle 12.30 di giovedì 20 febbraio il tampone parte per il Sacco. Alle 21 mi chiama Valeria Micheli, virologa di guardia all’ospedale milanese: «È positivo». Una soddisfazione professionale? «Sì, ma un colpo durissimo sul piano personale: ho sperato fino all’ultimo di essermi sbagliata».

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