Martedì 30 Settembre 2025 | 20:52

Viaggio nella nostalgia di Matera: «Nel '94 nel rione non c'erano hotel»

 
Andrea Di Consoli

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Andrea Di Consoli

Viaggio nella nostalgia di Matera: «Nel '94 nel rione non c'erano hotel»

Sin dall’inizio del nuovo secolo, soprattutto in seguito all’arrivo di Mel Gibson la modernizzazione della città fu rapidissima . «La ricchezza che la città sta vivendo rischia di essere anche un impoverimento»

Giovedì 07 Dicembre 2023, 13:20

MATERA - La prima volta che andai a Matera fu nel 1994. Già a quel tempo, ricordo, Matera mi parve una città irrimediabilmente «corrotta» dalla modernità. Ero fortemente segnato dalla visione apocalittica dell’«ultimo» Pasolini, quello più violento nei confronti della società industriale e del benessere di massa.

Mi aggiravo per Matera, forte anche delle suggestioni del «Cristo si è fermato a Eboli» di Carlo Levi, e osservavo indignato una città che con sonnacchiosa voracità stava assimilando tutte le abitudini e i tic delle città più moderne d’Occidente.

Pochi mesi prima Matera era stata dichiara città patrimonio dell’Unesco. Ma erano in pochi, fuori da Matera, a saperlo, e a parlarne; inoltre, da quel che ricordo, la città era maggiormente concentrata su dibattiti urbanistici un po’ nevrotici e sulla questione industriale del polo dei salotti, che iniziava a mostrare le prime criticità. Avevo diciassette anni, e guardavo con diffidenza e fastidio i miei coetanei materani vestiti alla moda, la movida che iniziava a diventare un’abitudine diffusa, il proliferare di pub e palestre. Dov’era finita, mi domandavo, la capitale morale della civiltà contadina meridionale? Nel 1994, tanto per mettere a fuoco gli enormi cambiamenti che sono avvenuti negli ultimi trent’anni, nei Sassi non c’era un solo albergo.

In tutta la città gli hotel si contavano sulle dita di una mano. E io, per risparmiare, alloggiavo sempre all’hotel De Nicola, che ora non c’è più, e che in quegli anni era il più economico. A Matera un po’ di turismo c’era, ma era davvero contenuto, così come erano pochi quanti vivevano di ristorazione e di accoglienza alberghiera. Fondamentalmente i ristoranti erano due: la Trattoria lucana e Francolino. Almeno, così mi ricordo.

Alla metà degli anni ’90 Matera mi innervosiva, perché la vedevo – moralisticamente – come una città impiegatizia, piccolo-borghese, un po’ conformista nel voler assimilare il più rapidamente possibile le mode del momento. Avevo in testa i libri di Levi, Scotellaro, Rossi-Doria, De Martino, Nigro, e non riuscivo a capire come usarli per orientarmi in un presente che mi sembrava smanioso di sbarazzarsi molto in fretta di tutto quel patrimonio morale ed estetico.

La verità è che una ancor più grande mutazione si stava preparando all’orizzonte, e che quella, irrisoria, che osservavo pieno di astratti furori adolescenziali alla metà degli anni ’90 non era ancora niente, rispetto a quella che sarebbe avvenuta di lì a poco.

Perché sin dai primi anni del nuovo secolo, con il sorgere di alberghi di lusso e ristoranti raffinati, soprattutto in seguito all’arrivo in città di Mel Gibson, che a Matera aveva ambientato quel capolavoro del cinema che è «The Passion of the Christ», la modernizzazione della città fu rapidissima e impetuosa.

Matera scoprì fino in fondo il proprio potenziale turistico, e tutti – dai politici agli artisti, dai commercianti agli architetti – sentirono una sorta di euforia avendo intuito che la città poteva «esplodere» a livello turistico e mediatico. Tant’è che per circa un decennio – grosso modo dal 2010 al 2020 – la città fu laboratorio un po’ avveniristico per i tanti che si cimentarono nel compito di capire come saldare la città della «vergogna nazionale» con la «smart city» digitale.

A Matera sono tornato per l’ultima volta qualche mese fa per partecipare a un convegno su Rocco Scotellaro organizzato da Franco Vitelli. Alla fine del convegno ho camminato per alcune ore in città, e per me è stato come fare un pellegrinaggio nei luoghi della mia giovinezza, tutti stravolti e travolti dal turismo di massa.

Però la cosa mi fece riflettere, perché in verità io ero nostalgico di una Matera perduta anche nel 1994, quando ci arrivai per la prima volta. Voglio dire, cioè, che io non sono mai riuscito ad amare Matera per quella che è, ma sempre sentendo dentro di me le voci sommerse e affogate di un’epoca passata. È come se Matera, per me, fosse la città della nostalgia e del rimpianto per qualcosa di prezioso che non abbiamo saputo custodire e difendere.

Vorrei dire che in trent’anni – da quando, appunto, Matera divenne patrimonio mondiale dell’Unesco – la città ha fatto uno straordinario balzo in avanti, diventando sempre più ricca e sempre più conosciuta nel mondo. Ma per noi che abbiamo avuto la fortuna di ascoltare coscienze critiche della storia materana come Leonardo Sacco e Raffaele Giura Longo – tanto per fare due nomi – questo «boom» ha qualcosa che ferisce, perché è come se tutta questa modernità avesse sepolto l’anima di Matera, la sua umiltà, la sua poesia.

Dal 1993 a oggi tutto è migliorato. La città è ormai un brand mondiale. E tuttavia, proprio come il ragazzo che ero nel 1994, io sento tutto questo «boom» come una ferita, come un’espropriazione. Ho un’età per cui sono sufficientemente attrezzato per notare autocriticamente tutti i limiti della mia posizione «pasoliniana».

Eppure io dico che, pur nel grande guadagno generale, ogni giorno che passa Matera perde qualcosa. Non so esattamente cosa, ma sento che questa ricchezza è anche un impoverimento. Perché? E perché sono trent’anni che a Matera sento dentro di me questa nostalgia per una Lucania che, per quanto misera e feroce, aveva qualcosa di sacro e dunque di irrinunciabile?

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