La «Scienza della comunicazione» è una disciplina che attira i giovani attratti dalla modernità dell’ambito culturale e dalla presunzione che possa aprire strade professionali in territori affascinanti, omogenei alle tendenze spontanee degli interessi giovanili: mass-media, stampa, pubblicità, comunicazione, relazioni sociali. Con l’irrompere spavaldo della «Intelligenza artificiale» le richieste di personale non sono più irrisorie. Gli sforzi dei più consapevoli esperti si dovrebbero indirizzare a modulare le aspettative, ridimensionando le prospettive e indicando, se mai, la interessante ipotesi formativa come statuto socioculturale di intelligenze umane che potranno, in ogni ambito, sfruttare la preparazione per configurare una più alta coscienza sociale, alimentando saperi condivisi di moderno profilo. L’abitante del villaggio globale sarà un buon cittadino planetario se sarà attrezzato anche nella Sociologia della Comunicazione. Scienziati che se ne occupano hanno condotto uno studio interessante. Sono sapienti pensosi del presente chiassoso e inquieto che stiamo vivendo che si sono presi la briga di fare due conti.
Hanno calcolato che il nostro presente, quello movimentato che stiamo vivendo, è brevissimo: un nonnulla a petto del tempo dell’umanità. Questi studiosi parlano dal punto di vista della comunicazione. Ed ecco il risultato: posto che consideriamo i circa cinquantamila anni che l’uomo ha impiegato a transitare dall’esitante graffito sulle pareti di una caverna alla navigazione, via Internet, delle opere della «Intelligenza artificiale» simboleggiati in un giorno solo, il giorno della vita dell’umanità, avremo delle interessanti sorprese. Scopriremo, per esempio, che il nostro eroe, l’uomo disegnante ci ha messo venti ore a passare dai grugniti alla fonazione per diventare parlante e, addirittura attore. Poi ha usato un’altra oretta a concepire l’alfabeto, un paio d’ore a progettare la scrittura e a farsi scrittore e lettore, un’ora ad escogitare la stampa e solo una mezz’oretta scarsa ad inventare tutto il resto e, cioè, giornali, telegrafo, telefono, radio, cinema, televisione, internet, telefoni cellulari e, appunto l’«Intelligenza artificiale» che ha avuto, però, bisogno dei tempi supplementari che si stanno giocando. Anzi: gli ultimi cinque minuti sono stati i più burrascosi ed impegnativi. Infatti, tutto quello di cui ci serviamo per comunicare modernamente è il ritrovato di qualche secondo fa. Secondo epocale, s’intende. Ma nulla del lavoro fatto si annichilisce nel passaggio da uno all’altro dei codici e dei sistemi linguistici, secondo la teoria delle transizioni: la lingua del racconto sopravvive nel teatro che, a sua volta, rigogliosa, sopravvive nel cinema il quale trova nella televisione un veicolo pulviscolare anche grazie alla rete.
Così come il graffito sopravvive nella comunicazione moderna e, anzi, da questa è amplificato e assume connotati nuovi e, talvolta, artisticamente interessanti. A maggior gloria del civismo verso l’ambiente, oltre che per suggerire messaggi di impegno sociale.
Ma, nelle metropoli, e non solo, dilaga il «graffitismo» sconcio e imbecille di maniaci dei muri notturni autorizzati a sentirsi creativi con totale libertà di spray. Questa tendenza soccombe pateticamente nella corriva violenza della polemica politica. Devo ammettere che detesto il «graffitismo» selvaggio e vandalico, oltre che criptico. Preferisco, nel mio orizzonte di curiosità, la schiettezza della scritta, la rudezza dell’invettiva, l’enfasi dello slogan, il grido dipinto, la disarmante innocenza della dichiarazione d’amore affidati al muro e al pennellone.
Per farmi perdonare la pedante lezioncina, mi permetto di confidare ai lettori alcune perle, tutte baresi. Ricordo un perentorio «Metti a Cassano» inteso come calciatore, ad un allenatore. L’imperioso ordine transita dall’ambito calcistico al ruolo di metafora generalista, intendendo la raccomandazione come invito a decisioni coraggiose, anche se discutibili. Cito, poi, una scelta di sobrio decoro, graffita sul muraglione del sottopassaggio di Via Quintino Sella che si limita a citare i popoli vittime di guerre spietate. Tutto qui, per sobrietà o per carenza di aggettivi.
Sul piano di faccende intime la costatazione muraria «Davide, ind a litt non sì nudd» (Davide, nel letto non vali niente) repertata nei pressi della Stanic. Deciso il tono dell’avviso su di un passo carrabile: «Entrare adagio. Stanno i bambini». Ho pensato di raccogliere una crestomazia di scritte baresi. La gara sarà ardua. Si parte dall’esegeta shakespeariano che palpita: «Se la rosa non si chiamerebbe rosa, Rita era il suo nome». Con sprezzo del congiuntivo e del condizionale ma con tremori di Romeo di Via Petroni, a Bari. Fatemi sapere se c’è ancora. La teoria delle transizioni è giusta, anche se non spiega, però, il senso di un’insegna, con una scritta: «Crepes alla Kitemmurt». Spero che l’intelligenza umana l’abbia cassata. Proprio: cassata.