Sabato 06 Settembre 2025 | 15:09

Il nuovo mondo è... fatto di tempi cattivi

 
Michele Mirabella

Michele Mirabella

«I tempi primitivi sono lirici, i tempi antichi sono epici, i tempi moderni sono drammatici»

Domenica 02 Marzo 2025, 14:14

«I tempi primitivi sono lirici, i tempi antichi sono epici, i tempi moderni sono drammatici.» Così V. Hugo nella prefazione al Cromwell: I suoi tempi moderni. Ed essendosi congedato dal mondo lasciandoci la voce del girovago accattone Gavroche, di Jean Valjean, di Cosetta nel 1885, mi chiedo come avrebbe definito i tempi nostri: il secolo breve, il ‘900 e il primo affannoso quarto del secolo nuovo. La gamma degli stili letterari offre il dramma tragico, l’arcadia, la favola pastorale, il naturalismo, il verismo, il realismo, la commedia, il dramma epico, il surrealismo, l’assurdo, la farsa, l’école du regard, eccetera.

E, poi, dalla scena, il melodramma, l’operetta, il varietà, la rivista, l’avanspettacolo. Al lettore il compito di trovare gli anni giusti per questi stili. Per esempio, la farsa che è perfetta per gli anni che stiamo vivendo nelle varianti infranciosate, come dicevano i polemisti d’altri tempi, di vaudeville e pochade.

Il cabaret grassoccio e spudorato può designare, a scelta, ogni anno, giorno e minuto della recente vita nazionale, anche se il barocco sarebbe perfetto per la nostra storia recente. In Italia, si sa, la via più breve tra due punti è l’arabesco. (Flaiano). Ma per l’attualità, l’unico stile che può esprimere l’ésprit des temps, come avrebbe detto Hugo, è «televisivo». Tempi televisivi. E della pubblicità. Ma lui non poteva saperlo. In verità esiste un clima, diciamo così, culturale, nel tempo nostro che, pur essendo stato ispirato, motivato, ma, soprattutto, imposto dalla televisione omogeneizzante, si articola in periferie del linguaggio che prolificano.

Il racconto dei «racconti» della Storia e, finalmente, uso il termine in luogo congruo e per congruo motivo e non come inutile preziosismo, la «narrazione» di questa, non potranno prescindere dall’uso del linguaggio mediatico che nasce teatrale, diventa e si interseca con l’olimpo cinematografico per, poi, amplificandosi, trasformarsi in segnico e mediatico, radiofonico e televisivo e, per ora, mediatico-informatico. Da Eschilo, Sofocle, Euripide, Plauto, Terenzio, Machiavelli, Shakespeare. Fino alla inconsultabile, perché gigantesca, inesauribile «bibliomedioteca» che sparge informazioni alluvionali. Vere, quasi vere, forse false. Ma tutte consultabili col solo pigiare un telecomando. L’«intelligenza artificiale» sa tutto e non gliene frega niente. Per questo rischia di essere poca intelligenza e troppo artificiale. Rischia, ho detto.

Comunque, tento di ricapitolare con bibliografia drammaturgico-teatrale quanto sta accadendo nel pianeta e non più solo ad Atene, Roma, Londra con annesso «marcio» della Danimarca come lamenta Amleto, Parigi, San Pietroburgo, New York, Tokio e via viaggiando in palcoscenici e biblioteche. La spettacolarizzazione dell’azione reale, di eventi cruciali è globale e penetrante anche nelle innumerevoli suburre del «mondo nuovo».

Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley è un romanzo distopico che offre una prospettiva molto inquietante su un futuro ipotetico angoscioso. Cittadini ebeti e rassegnati dondolano sulla scena inconsulta del futuro che, purtroppo, sembrerebbe, nella trama inquieta di Huxley, sopravvivere come gli operai della catena di montaggio nel film Tempi moderni di Charlie Chaplin. Ma questi inquietavano con un umorismo che suonava come un allarme sulla coscienza dell’umanità «moderna».

La particolarità de Il mondo nuovo di Aldous Huxley, invece, sta nelle caratteristiche della «distopia»: una pigra quiete che somiglia all’ebetudine della rassegnazione, una pace imposta dallo spietato potere che le guerre considera una sua esclusiva e una droga collettiva indicata da Huxley come blasfema eucarestiaquotidiana. Il mondo pare giunto alla realizzazione dell’inesorabile «utopia», ma le basi sulle quali essa si fonda sono ripugnanti perché conseguenza inevitabile della storia umana di guerre, malattie, lotte sociali, prepotenze spietate e immani ebete tristezze.

Mi suggeriscono queste tristi, mi rendo conto, citazioni letterarie e suggerisco Chaplin come antidoto di speranza. Charlot mi è venuto in mente mentre seguivo, i telegiornali. Uno show! Protagonista assoluto il Presidente degli Stati Uniti in carica, il repubblicano Donald Trump.

Il personaggio del vagabondo «Charlot» è simbolo di grande umanità che accusa e rispecchia la triste realtà delle generazioni dell’America degli anni venti e trenta, nomignolo che si era dato Chaplin per il personaggio che recitava con geniale bravura.

Il fatto è che «vagabondo» in inglese di traduce tramp Il personaggio di Chaplin è simpatico, gioviale, generoso. Il Presidente Trump, no, per niente. Forse è la lettera «u» a fare la differenza. Il vagabondo avrebbe stretto in un abbraccio il Presidente dell’Ucraina Zelensky. E gli avrebbe promesso di imporre la pace agli aggressori russi. Trump ha recitato il ruolo del cattivo. Ma, anche come attore è proprio negato e antipatico. Ha ragione Victor Hugo: i tempi moderni non sono drammatici, sono cattivi.

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