Il computer non parla, se proprio uno non insiste. Ma ascolta, taciturno, e ubbidisce, se sappiamo usarlo. Io «leggo» il mio computer taciturno con la mentalità formata nel corso dei cinque, fondamentali, anni della scuola elementare che, poi, in lunghi e stremanti decenni ha solo sviluppato ampiamente l’apprendimento del metodo e delle nozioni fondamentali del sapere condiviso dagli abitanti del pianeta.
Io «leggo» il mio computer e mi piace ritrovare la curiosità e la passione che fiorirono, appunto, nella scuola elementare: lo leggo e confronto con i libri o i giornali. E so usarlo quanto basta a scrivere in un passabile italiano. Figuratevi se riesco a scrivere in Greco e, per giunta, in quel bel Greco antico dei saggi pensatori con i quali ho avuto dimestichezze affannate al Liceo e frequentazioni rare, rispettose e timorose all’Università.
Peccato: avrei potuto trascrivere fedelmente un bel frammento di Epicarmo (vissuto tra la metà del 500 a.c. e la metà del 400 a. c.) il poeta, commediografo e filosofo greco di Sicilia, inventore della commedia nel teatro antico che, tradotto in maniera ginnasiale, in Italiano suona così: «Tu non sei abile a parlare, ma incapace di tacere». Aulo Gellio lo traduce in uno stile meno ginnasiale in un bel Latino: Qui cumloqui non posset, tacere non potuit. Raffinatissimo l’uso diverso del verbo posse. Verifichiamo in lingua nostra. Siamo tutti in grado di tradurre ulteriormente in un più rudimentale Italiano con «Non essendo capace di parlare non riuscì a tacere». Leggo che certe raccolte sentenziose attribuiscono il detto a Democrito e gli studiosi ne rintracciano frequentemente la persistenza e longevità nella letteratura cristiana del tempo antico e segnatamente in San Girolamo che varia ariosamente così: Loqui qui nescit discat aliquando reticere. Traduco per comodità dei distratti: «Chi non sa parlare impari, di tanto in tanto, a star zitto». È una sentenza fortunata e felicemente eloquente, tanto da essere usata da molti alt ri pensatori, moralisti e letterati come Sant’Ambrogio, Gregorio Magno, Otloh di Sant’Emmerano, lo Pseudo-Seneca che ammonisce: Qui nescit tacere nescit et loqui. Che vale «Chi non sa tacere, non sa neanche parlare».
Io non so se gli ospiti politici e i politicanti ospiti in televisione e radio abbiano letto di fresco lo Pseudo-Seneca e Aulo Gellio, consultino San Girolamo per far pace col Vaticano, né sono al corrente dello stato degli studi dei, talora, verbosi e farneticanti ospiti dei talk-show che si affannano a trovare i modi per dar ragione al mandante di turno nella politica della sciagurata storia di Europa, se, insomma, anche nella accurata guerra all’Italia e all’Italiano trovino il tempo di compulsare i compendi di sentenze o il «De Officiis» di Sant’Ambrogio.
Non sono al corrente dello stato di avanzamento della speculazione filosofica e filologica della gente che si serve della popolarità delle scandalose sciocchezze come quel tale che da sempre ragione a Putin con sprezzo del ridicolo e dalla lingua italiana, ma ho motivo di reputare che il loro cervello sia in ben altre faccende affaccendato che non con le dispute su Democrito sentenzioso. Parlano, parlano, parlano e litigano, rimbrottano, polemizzano, pongono l’accento, anticipano, contestano, rivelano, dichiarano, prudentemente negano.
E, poi dicono: «Mi taccio»! L’ho «beccato» martedì scorso. Comunque, li invito a rileggere qualche sentenza di quelle alle quali ho fatto riferimento a seguito di un appassionante pomeriggio di consultazioni e studi. Scopriranno, com’è accaduto a me, un tesoro di saggezza e di prudenza, ammetteranno anche che tutte le sciocchezze che si dicono e fanno nelle contese della politica sono già state dette e fatte molte altre volte. Ne consegue la mia implorazione di moderare il chiasso, il clamore, la lite. Non si può vivere in una continua campagna elettorale noiosa, estenuante, rumorosa, invadente. E rissosa.
Esiste anche l’amore, il lavoro, il piacere di annoiarsi, di andare a spasso, di andare a pranzo dalla mamma, di giocare a tresette, di tirar tardi con gli amici, di praticare lo sport, di andare al cinema, a teatro, di leggere. Esiste anche la vita. E la vita è, pare, sempre la stessa per gli uomini che sono sempre gli stessi, nonostante i sapienti si prodighino a seminare sentenze come quelle che ho dispensato prima con sfoggio di erudizione, lo ammetto. A mia scusante c’è da dire, che ho solo riferito studi altrui da me consultati per approvvigionarmi di saggezza che, lo so bene, stenterò a usare.
Come stenteranno ad accettare i consigli di chicchessia i protagonisti della politica europea che non riescono neanche a riconoscere i punti in comune con la prossimità della formazione culturale dei probabili alleati. Forse perché non bazzicano il Latino? Andrà meglio con l’Inglese? He knows not when to be silent, who knows not when to speak. «Chi non sa quando star zitto, non sa neanche quando parlare». E, vorrei aggiungere, non saprà neanche «fare».
Ma, almeno, dopo le sconfitte, saranno in meno a chiacchierare e a litigare. Quando la nave affonda, si sa, ci si affretta ad abbandonarla. Non sarà Sant’Agostino, ma è vero.