Lodo le zie. Intendiamoci, apprezzo anche gli zii, ma elogio soprattutto le zie. le zie sono state importanti per generazioni, hanno costituito, come generosa alterità materna, una falange benemerita di memorie storiche e un giacimento insostituibile di ricordi, piccola pedagogia, buon senso, rassicurazioni. E ricette. Con l’affermarsi della voga dei figli unici, la figura declinerà nel panorama antropologico italiano, così come quella dei cugini, insostituibili compagni di giochi e di apprendistati di ogni risma e la sparizione dei cognati, magnifici dispensatori di riguardi e di aneddoti, sfidanti a scopone e di mangiate e bevute.
La zia di un mio amico teneva nell’armadio una scatola bianca, di quelle, una volta sobrie e robuste, che custodivano le scarpe, una scatola legata con uno spago che recava una scritta: «Lacci inservibili». Ho detto la zia di un mio amico, ma avrei potuto dire mia zia, perché l’aneddoto si sovrappone all’aneddoto, il vecchio racconto alla citazione e via scrutinando nel «sembra ieri» che affascina spesso il nostro malinconico attardarci nella memoria. La signora godette ottima salute anche in una lunga vecchiaia e questa circostanza ha, forse, a che fare con la sua mentalità provvida e prudente che prima di buttar via qualcosa, rifletteva, titubava, aspettava. Al mio paese, Bitonto, si dice stip ca’ truv che vuol dire «conserva che troverai». Una filosofia.
Chi sa se la zia, non mette conto di dire di chi, custodiva davvero lacci inservibili in quella scatola bianca. Non lo sapremo mai. Per anni abbiamo, il mio amico ed io, riso di quella stramberia e non ci siamo curati di capire quale ragione avesse la signora per conservare dei lacci inservibili. Adesso lo so.
Sarà l’età, sarà l’esperienza, chi sa, ma di certo ho imparato il sottile piacere del conservare. Un piacere che, evidentemente, fa bene alla salute fisica e mentale. Ed è prezioso ausilio per la Storia. Non si tratta dell’altezzosa passione dell’archeologia o dell’astuto calcolo dell’antiquariato, si tratta proprio del piacere di conservare o, meglio, della scaramanzia verso il futuro oscuro e indecifrabile. Il bello è che conservo non solo quanto posso o quanto proprio non mi fa schifo di quello che arriva dal supermercato del consumismo quotidiano, ma, soprattutto, cerco, recupero, archivio e custodisco il passato recente che, al momento, avevo dilapidato in un giovanile furore di rinnovamento quotidiano.
Questa seconda frenesia mi è assicurata dalla frequentazione accanita e deliziosa dei mercatini dell’usato e del trovarobato dove è possibile reperire la paccottiglia meravigliosa di una recherche minuscola e ludica: non solo dischi e libri, ma, anche, soprammobili, giocattoli, vecchie radio, dischi di vinile, indumenti, cappelli, cravatte, gilet, figurine e tutto il bric-à-brac reperibile nel mercato delle pulci compresi televisori che pochi anni fa giudicavamo modernissimi. Cosa c’è dietro questa meticolosa e piccola follia? La voglia, forse, di disvelare che il Tempo regola la nostra storia di uomini, da un canto, distruggendo tutte le opere del nostro breve destino, anche quelle più ingegnosamente pensate e, dall’altro, mettendo a nudo la verità concordemente col suo trascorrere implacabile. E, allora, dopo le mareggiate del tempo trascorso, restano sulla battigia il rudere austero e la testimonianza solenne, il rottame e il reperto, qualche nota, qualche verso, alcune parole sparse.
Ma resta anche il quotidiano ricordo di tutto quello che ci ha aiutato a vivere, a sopravvivere, ad amare e soffrire, a patire il tempo, a tirare avanti: l’oggettistica della vita di tutti i giorni, non importante, non catalogata nelle istruzioni per l’uso della professione, del lavoro, della fatica alta di vivere, ma l’attrezzeria semplice del tirare a campare. Il collezionismo conservativo e non affaristico e speculativo prende avvio dalla voglia struggente di riordinare le idee e i ricordi che sono rintracciabili nelle Grandi Opere nostre o di altri passeggeri transitati sulla terra, quest’«atomo opaco del male» per citare il Pascoli, grande raccoglitore anche di infime, ma sempre sublimi schegge del quotidiano tempo umano. E questa ansiosa collezione di historiae cordis archivia, per la storia che il futuro scriverà, il mondo in cui ci è stato dato di tirare a campare, ma anche le piccole prove di abilità e di praticità nel renderci la vita meno complicata o meno amara. O, addirittura, felice.
Nella vetrinetta troveremo, così, un temperino a più lame, il quaderno nero col bordo rosso, la trombetta, dei pennini, la pupa di Lenci, un abbecedario, una trottola, un vecchio ventilatore di bachelite funzionante, la foto della scuola elementare, lo spremilimoni di alluminio, un uovo di legno per rammendare, una scatola di «Cucirini cantoni», il manuale del perfetto aggiustatore, la macchina fotografica del nonno, un libro di fiabe e frammista alla vetusta biblioteca una costatazione di V. Hugo nella prefazione al Cromwell: «I tempi primitivi sono lirici, i tempi antichi sono epici, i tempi moderni sono drammatici». E troveremo anche, perché no, i lacci inservibili di nostra zia.