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Essere al mondo? In Puglia è «stare»

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Essere al mondo? In Puglia è «stare»

Un verbo che al Sud ha mille espressioni e significati: dall’economia alla lettura, al bar

Martedì 21 Marzo 2023, 16:33

Dall’agorà al foro, dai rostri romani alla piazza medievale e rinascimentale, dagli esclusivi giardini settecenteschi alla rigogliosa villa comunale, la piazza risarciva del buio delle catapecchie i poveri nella storia d’Italia e d’Europa, si annovera nel vocio dei cittadini l’invito ad incontrarsi all’aperto, popolando questi luoghi dell’alta e spicciola umanità. Ma, anche, della voglia di misurarsi con la comunità e nella comunità. E nel generoso desiderio di frequentarsi tra simili si praticava una cultura non altezzosa, fatta si conversazioni, liti, e discorsi comizianti, alterchi pittoreschi e confidenze accorate. Vita di comunità che ribadiva l’armonia e anche la dialettica delle parti.

In Inghilterra quegli astanti prendono il nome di corner people. In quelle contrade, però, si tratta di gente che ha degli appuntamenti. Se li è dati o li da per scontati. C’è, insomma, una vicenda quotidiana che prevede il ritrovarsi con altri in un certo punto, un angolo di strada. Noi no, noi, al sud, andiamo a «stare». Con tutto quel febbrile affaccendarsi che comporta l’ozio faticoso della chiacchiera lenta, della conversazione vaga e ampia e la pratica dell’osservazione del passeggio. Nella colorata lingua quotidiana che pratichiamo in Puglia, ci sono quelli che «stanno» o, complicazione verbale che designa un’intenzionalità, «vanno a stare».

Si può, a Bari, «stare» nel senso dell’«essere al mondo» del filosofo Heidegger, ma si può, complicando le cose, anche rispettando la laboriosa filosofia, «stare nel», «con» e «contro» il mondo e il prossimo o, addirittura, «nonostante» quest’ultimo. Il verbo «stare», nel «volgare» di Puglia, svolge mansioni complesse e impegnative: si usa, quindi, per definire una condizione, uno stato, una modalità. In risposta alla domanda «Che facciamo stasera?», m’è capitato di registrare la locuzione «Andiamo a stare». Proprio così. «a stare» e basta.

In quel caso indicava una attività-non attività che consiste, lo sappiamo bene dalle nostre parti, nell’essere non bighelloni scansafatiche, ma meditabondi oziosi che occupano un luogo determinato e scelto. In genere l’angolo d’un caffè. Tutto questo e altro ancora è, a Bari, «stare».

Infatti: c’è un modo assai curioso d’esprimere la condizione di chi è provvisto o, più spesso, sprovvisto di qualcosa: si privilegia, rispetto al verbo avere, il verbo, ausiliare supplente, «stare», considerato variante del verbo essere. Si dice infatti, anche troppo spesso, «sto senza soldi», «sto senza mangiare da ieri”, “sto senza far niente», eccetera. Invece di «non ho soldi», «non ho mangiato da ieri», «non ho fatto niente», eccetera.

Ricordo, in tempi di ritrosie moralistiche delle agende delle donne, di aver sentito un tale lamentarsi di non poter andare ad una festa perché «stava senza femmina». Il cerbero era tassativo: senza dama non si entrava nel locale. Lui, il cerbero, «stava» lì apposta. C’è, poi, uno «stare» intorno ad un giornale. Uno pensa ai blog, wiki, newsletter, forum, magazine on line, giornali virtuali, e sbaglia. In me monta la nostalgia del giornale sulla gelatiera. Un tempo, ma credo e spero che si faccia ancora oggi, il proprietario del bar ostentava sulla gelatiera spaziosa una copia della Gazzetta fresca di giornata ed evidentemente a disposizione degli avventori.

Questi si dividevano, e credo e spero si dividano, in due categorie: quelli frettolosi che consumavano il caffè nelle infinite varianti della nostra arte della caffetteria e quelli che andavano al bar a «stare». I primi, comunque, non mancavano di buttare un occhio sul giornale spalancato sulla gelatiera, gli altri il giornale lo leggevano a spizzichi e bocconi, e, a furia di questa perlustrazione saltuaria, lo sbranavano contendendosi la pagina dello sport. Somigliavano, questi, al branco di leoni che, soddisfatta la prima fame, si degnano poi di brevi e distratte incursioni sporadiche sulla preda. Il giornale, alla sera, era ridotto uno straccio e l’ultimo residuo serviva solo a segnalare la programmazione cinematografica. Va da sé che lo «stare» di quei bighelloni era animato dalla spigolatura del giornale che forniva continui ed irrinunciabili argomenti di conversazione. Era la prima ed artigianale forma di fruizione collettiva, una lettura partecipata che animava una forma tribale di «blog» con rudimentali «post» di uno «sharing» di contenuti, cioè condivisione, del tutto spontaneo. Contare le copie di un giornale venduto a Bari, e, azzardo, in tutto il Sud, credo sia stata valutazione virtuale, ipotetica. Quelle copie andavano moltiplicate almeno per 10. Questo non faceva certo piacere agli editori, ma ha consolato i più preoccupati per le sorti dell’informazione in Italia. E intenerisce. Quella tribalità minuscola e cittadina aveva un suo fascino cui dovrò rinunciare. La movida è brutale assembramento, non poesia dell’incontro.

Oggi la gelatiera arrugginisce nella sua malinconica prestazione refrigerante e, purtroppo, penso che, da ultimo, si vada a «stare» molto meno. Forse, mi consolo, il giornale riescono a comprarlo ognun per sé, posto che non «stiano» senza soldi.

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