GALLIPOLI - Potrebbe ben essere l’inizio di una saga familiare, quella che sta contrapponendo il senatore Vincenzo Barba con uno dei suoi nipoti. Gli elementi ci sono tutti: uno zio che poteva permettersi, correva l’anno 2000, quella che dichiara essere una donazione di oltre un miliardo e seicento milioni di lire; un nipote che vive e lavora lontano da Gallipoli, contesta in primo luogo proprio che si tratti di una donazione; un rapporto tra loro che, quasi filiale, si deteriora fino al punto che ora la partita si giocherà nelle aule giudiziarie. I loro racconti, va detto subito, sono estremamente divergenti. Da una parte, il senatore sostiene che nel 2000, venuto a conoscenza di problemi economici legati all’attività lavorativa del nipote, emetteva in suo favore il fatidico assegno. Per vent’anni, la vicenda ha rappresentato un capitolo chiuso. Fino al 2020, quando il senatore avrebbe chiesto al nipote 5mila euro perché si trovava in difficoltà economiche, «legate - spiega - al blocco di tutti i suoi beni, conti correnti compresi, in relazione al tracollo della squadra di calcio di cui era stato presidente e nel quale era stato chiamato in causa dalla curatela fallimentare». Il nipote gli avrebbe opposto un deciso rifiuto.
Da qui, la decisione di revocare la donazione per ingratitudine. La quale si sarebbe esplicitata non solo nel rifiuto, ma anche deridendolo e ingiuriandolo ripetutamente in pubblico, facendo così venire meno i sensi di generosità e di stima che gli avevano suggerito di aiutare il nipote. Per quest’ultimo, non è stato ripianato alcun suo debito. Ci fu, nel 2000, un errore della propria Banca, che acquisto 12.000 azioni, invece delle 1.200 richieste e che era nelle sue possibilità pagare. Lui propose che i titoli azionari fossero acquisiti dalla Banca, ma la stessa, conoscendo il senatore Barba non solo come suo congiunto, ma anche come uno dei propri principali correntisti, titolare di immobili e liquidità tali da potere facilmente affrontare un simile esborso, gli proposte di acquistare le azioni. Lui accettò, benché fosse al corrente del rischio, e gli atti dimostrano che non si trattava di donazione, ma dell’acquisto di azioni; le quali persero successivamente ogni valore. In atti, il nipote nega pertanto d’avere mai ricevuto una richiesta di 5.000 euro dallo zio e fa soltanto notare che nel 2020 la fase di difficoltà economica era già stata superata e il suo tenore di vita dimostra che non aveva certo bisogno di una somma così modesta. Fallito un tentativo di conciliazione, la decisione passa ora al Giudice che valuterà racconti e documenti forniti tanto dal senatore, rappresentato dagli avvocati Gabriele e Anna Maria Ciardo, quanto dal nipote, difeso dall’avvocatessa Anna Panico.