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Una Calabria in cerca di riscatto

 
Raffaele Nigro

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Raffaele Nigro

Una Calabria in cerca di riscatto

Per ricordare che non ci può essere un’Italia divisa a metà, ma che il Paese è uno e le spinte all’arricchimento culturale possono fiorire in ogni parte

Mercoledì 21 Dicembre 2022, 10:51

Ad Acri di Cosenza si svolge ormai da dodici anni il premio Vincenzo Padula, intitolato a un intellettuale ottocentesco che per primo scrisse di banditi calabresi nel dramma Antonello capobrigante. Fondato da Giuseppe Cristofaro, coadiuvato dal palmese Santino Salerno, il premio è stato guidato per anni da Walter Pedullà, critico letterario originario di Siderno. Insomma, siamo di fronte a una Calabria propositiva e in cerca di riscatto. L’attenzione del premio è andata certamente a figure di spicco nel panorama intellettuale italiano, ma l’intento era ed è quello di affiancare a figure nazionali creature del panorama culturale del Mezzogiorno.

Per ricordare che non ci può essere un’Italia divisa a metà, ma che il Paese è uno e le spinte all’arricchimento culturale possono fiorire in ogni parte. Così affianco a Pupi Avati e Ferruccio De Bortoli, sono arrivati sui primi contrafforti della Sila il calabrese Gianni Amelio e l’avellinese Ettore Scola e il siciliano Salvatore Silvano Nigro.

Per Acri bisogna lasciare Cosenza e superare il Crati, tra distese di agrumi melograni e olivi. Il lamento costante, anche qui, è la fuga dei giovani, il decremento delle nascite e l’assenza di lavoro. Si sale dunque alle prime creste della Sila e proseguendo si tocca Camigliatello e giù giù si scende a Crotone. Quest’anno, insieme ad Elena Stancanelli per la narrativa e a Giovanna Taviani per il documentario, a vincere il premio sono Vittorio Sgarbi per la saggistica e Michele Placido per la regia cinematografica.

Pregusto la lezione che Sgarbi terrà sul Rinascimento, partendo dal suo volume, Raffaello. Un dio mortale, edito dalla Nave di Teseo. Ed eccolo sul palco a intervallare cose serie con battutacce sul cancro alla prostata che lo avrebbe reso, a suo dire, quasi impotente. Ma quando decide di concentrarsi sui temi del libro sa incantare. Raffaello fu centrale nella vita delle corti di Firenze e di Roma e partecipò da protagonista alla costruzione del momento più elevato della pittura italiana.

Sgarbi ricostruisce la vita e la prodigiosità artistica di Raffaello, la sua apparente calma, gli anni di apprendistato presso Pietro Perugino senza dimenticare gli aspetti intimi dell’uomo, con il commovente rapporto con la madre morta giovanissima e col padre, il pittore Giovanni di Santi morto quattro anni dopo la moglie. Dunque un’adolescenza sfortunata e priva di affetti. Nella sua prosa e nel suo eloquio appassionato, Sgarbi ripercorre le molte fasi di questo genio morto a soli 37 anni, che ammirò profondamente Leonardo, fu amico del Bramante ma ebbe contrasti con Michelangelo.

Accompagnati dalla qualità interpretativa del critico entriamo nel magistero compositivo di Raffaello, da La scuola di Atene allo Sposalizio della Vergine, alla Madonna del Cardellino, agli Autoritratti. E l’analisi psicologica del critico si fa più intrigante intorno al ritratto di una donna che conosciamo come la Fornarina. Il capitolo più torbido della vita di Raffaello, che fu travolto dall’amore e dalla passione a causa della quale, scrisse Vasari, si ammalò e perse la vita.

Gli tiene dietro sul palco un pugliese sanguigno, interprete di oltre cento film e di un gran numero di fiction televisive, Michele Placido al quale riconosciamo di aver portato sempre una carica di passionalità tutta meridionale nelle figure a cui ha prestato volto e voce. Chi può dimenticare il commissario Cattani? Da questa figura Placido è stato influenzato anche nel passaggio alla regia, dove ha privilegiato storie di profondo impegno civile. La sua fonte di ispirazione è la cronaca, lo scavo nel presente e negli anni della prima e della seconda repubblica, testimoniato da film come Pummarò Un eroe borghese, Il Cecchino, romanzo criminale. Film d’inchiesta e di indagine, sulla linea di Leonardo Sciascia e dell’amico Marco Bellocchio. Placido ha rovistato nel buio della politica italiana, cercando il lato oscuro degli eventi di cronaca, ciò che è poco chiaro, umbratile, i segreti e i misfatti di una parte di secolo che ci ha travolto pur avvolgendo la superficie in una bambagia di apparente benessere e di più apparente quiete.

Così, la ricerca dell’altra faccia della medaglia è nella direzione de L’ombra di Caravaggio, un film che consigliamo e nel quale l’indagine tipica dei nostri anni scivola nel Seicento italiano. Emerge ancora una volta nel ventre di una Roma violenta lurida e miserabile. Il film diventa un manifesto del pensiero di Placido: l’artista, il creativo è un uomo libero, la sua genialità nasce proprio dalla possibilità di essere trasgressivo e autentico. È come se Placido si porti dietro a vita la memoria delle vicende del brigantaggio postunitario fiorito intorno al Vulture, tra Rionero e Ascoli Satriano, suoi luoghi di origine. Era l’ansia di libertà quella che spingeva Carmine Crocco a combattere gli invasori savoiardi.

Così nel film c’è il contrasto costante tra la fangosità della vita e il miraggio della bellezza che prova a illuminare la nostra quotidianità, una consapevolezza che nelle organizzazioni politiche e sociali si annida purtroppo la stessa commistione di luci e ombre della nostra interiorità, fatta di peccato e redenzione, di avvolgimento nella mota del male e nell’ansia di ricerca della luce.

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