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Odessa tra «‘O sole mio» e il «Potëmkin»

 
Michele Anselmi

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Michele Anselmi

Michele Anselmi

Città cosmopolita sul Mar Nero amica e fraterna con l'eleganza dei suoi palazzi, dei suoi viali e delle sue piazze

Martedì 08 Marzo 2022, 12:50

Inizia con questo articolo la collaborazione con la «Gazzetta» di Michele Anselmi, già caposervizio de «l’Unità» e firma di «Il Foglio», «Il Riformista», «Il Giornale» e «La Lettura»

Dunque Odessa, la cosmopolita città sul Mar Nero con un milione di abitanti, la comunità dove da secoli convivono persone di lingua ucraina e russa, minoranze bulgare ed ebraiche, sarebbe nel mirino dell’esercito moscovita dopo essere stata in buona misura risparmiata nei primi giorni di guerra. In verità gli Stati Uniti non credono che l’attacco a Odessa sia imminente, secondo quanto affermato da un alto funzionario della Difesa statunitense, ma il presidente Zelensky invece non ha dubbi: «Sarà un crimine di guerra. Sarà un crimine storico».

Troppo strategico quel porto commerciale, il più grande dell’Ucraina, dai numeri imponenti, se è vero che di lì passano ogni anno merci per 40 milioni di tonnellate, per non dire del turismo. Una città simbolo, oltre che di straordinaria bellezza architettonica. Perché nel 1925 il regista lettone Sergej Michajlovič Ėjzenštejn vi girò La corazzata Potëmkin, film che non sarà piaciuto ai nostri Pier Paolo Pasolini e Paolo Villaggio e tuttavia resta un caposaldo indiscutibile nella storia del cinema; e un po’, almeno per noi italiani, perché nel 1898 due napoletani trasferitisi per lavoro da quelle parti, Eduardo Di Capua e Giovanni Capurro, vi composero ‘O sole mio, presi da crescente nostalgia per la madrepatria lontana.

Magari non tutti i soldati russi pronti a marciare su Odessa sanno della struggente canzone partenopea nata in quelle viuzze da angiporto, pare dopo la visione di una frastornante alba sul mare; ma tutti dovrebbero conoscere il film, un classico della Rivoluzione sovietica, quasi un cine-mito fondativo, non fosse altro perché la ribellione dei marinai malnutriti stipati nella corazzata eponima, avvenuta nel giugno 1905 e repressa nel sangue dalle truppe zariste, custodisce un valore tra estetico e politico eternato dalla celebre sequenza della scalinata, copiata all’infinito e in ogni salsa (anche se il massacro di Odessa non fu consumato su quei gradini, bensì in vie e stradine secondarie, e tutto avvenne di notte).

Qualcuno forse ricorderà. «Forza, proviamo a parlare con i soldati!» grida, così si legge nella didascalia del film muto, una vecchia di Odessa sgomenta di fronte a quanto sta succedendo. Eppure i cosacchi dai lunghi fucili, con tanto di baionette innestate, non si fermano, e anzi tutto travolgono avanzando in formazione a schiera, decisi a uccidere senza pietà, su ordine dello Zar, anche anziani, storpi, donne e bambini, perfino neonati in carrozzina.

Può accadere di nuovo in questo marzo del 2022? Ci si augura di no, almeno non così. I russi dovrebbero sapere quanto anche un solo un atto di violenza verso i civili, se filmato da un telefono cellulare, possa oggi danneggiare ulteriormente l’immagine di quella che Putin ha chiamato «operazione speciale», evitando con cura le parole «guerra» e «invasione». Ma quell’imponente scalinata detta Primorski, realizzata tra il 1837 e il 1841 su progetto italiano, composta di 192 scalini, alta 27 metri e lunga 142, più che mai oggi si carica di un significato ideale, proponendosi come un monito altamente morale nei confronti di chiunque voglia reprimere, irreggimentare, uccidere la libertà popolare.

I cosacchi di ieri in divisa bianca e stivaloni non assomigliano agli attuali soldati russi in divisa mimetica e visori notturni; non di meno, per tragica ironia della sorte e torvo ricorso storico, sempre uno «zar» ha ordinato l’uso delle armi contro una popolazione perlopiù inerme, allo stremo: nel 1905 Nicola II Romanov, oggi l’autoincoronatosi Vladimir Putin.
Per questo Odessa deve esserci cara, amica, fraterna. Pure per l’eleganza dei suoi palazzi, dei suoi viali e delle sue piazze; per la forza dei suoi commerci portuali e marittimi; per il suono unico del suo nome: così rotondo, evocativo, potente. E siccome la Storia torna spesso sul luogo del delitto, sarà anche il caso di ricordare che sempre a Odessa, nell’agosto del 1941, migliaia di cittadini ebrei furono sterminati a sangue freddo, come rappresaglia in risposta a un attentato, ad opera dell’esercito romeno comandato dal generale Nicolae Macici, s’intende affiancato dalle truppe tedesche. Leggo che il 10 aprile 1944, giorno in cui la città fu liberata dall'Armata Rossa, soltanto 703 ebrei risposero all’appello; appena tre anni prima, al momento dell’occupazione nazista di Odessa, erano 80mila.

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