Sul set di The Score Marlon Brando sembra si sia presentato completamente nudo nella metà inferiore per costringere il regista alle sole inquadrature strette e alte. Inizio perfetto per una stand-up comedy: giù i pantaloni, giù il sipario. La mezza figura inferiore o la figura intera è infatti l’essenza della fisicità del performer nella stand-up così, dai tempi del vaudeville o del burlesque attento all’universo delle parti basse. Il cinema nel suo (co)stringere le inquadrature stenta ancora a risolvere il problema del corpo integrale in campo, determinante invece nel racconto simulato di sé in un locale o di un teatro, come il Teatro degli Arcimboldi nel memorabile spettacolo di Bill Burr visto a Milano lo scorso 19 luglio; o addirittura di uno stadio come l’Assago sempre a Milano dove il 24 luglio Ricky Gervais porta per la prima volta anche in Italia Mortality. La strategia della stand-up impone all’interprete unico, uomo o donna nel contesto contemporaneo, di portare allo scoperto simbolicamente proprio le ipocrisie culturali che vanno così a coincidere con l’impresentabilità e bassezze che si annidano sotto la cintola planetaria: nessuna soluzione di continuità, né compromesso la scena e la categoria di “osceno” che per Carmelo Bene, letteralmente, era ciò che resta fuori. Che siano le sconcezze cosiddette, ovvero i tabù sessuali di una società repressa o morigerata a trovare risalto, è un’affermazione assai riduttiva per una forma d’arte teatrale a pieno titolo praticata tra i tanti da Jerry Lewis o Lenny Bruce, fino all’incalcolabile progenie del Saturday Night Live, e che punta, possibilmente, a prendere di mira direttamente il pubblico, il potere e l’establishment.
Fondamentale è in quest’orizzonte critico dunque la miscela di autolesionismo del o della protagonista di turno che si racconta, donde l’attacco frontale al pubblico che si riflette indignato o ilare, purché in qualche capace di reagire, nella sua rappresentazione impietosa. Perciò visivamente importante è il “taglio” di qual che si vede del personaggio pronto a mettersi da solo e per primo alla gogna, lealmente, pur di indicizzare gli altri. Il cinema invece “taglia” spesso e volentieri di montaggio e perbenismo, non riuscendo a restituire quel tutto esplicito del dialogo audio-visivo fatto di fisicità corporea e vocale a un tempo. Eppure è il clamoroso successo su Netflix di Bill Burr ad averlo portato in Italia a esibirsi in lingua, senza traduzione o sottotitoli perché sarebbe stato impossibile, e gli spettatori preparatissimi a riceverlo e a capire battute e bordate contro il politicamente corretto che ha assunto sembianze odierne impropriamente dette femministe con punte involontariamente ridicole, ergo attaccabili; laddove cioè le modalità alternative di censura linguistica, tutt’altro che liberatoria, e di pensiero unico autoritario, diventano una sorta di demenziale capovolgimento dell’atavico e odioso maschilismo.
Lo schermo degli stand-up comedians ha avuto bisogno da sempre, pur scontando fisiologicamente questa la restrizione visuale, peraltro non obbligatoria, come dimostrano i capolavori Lenny di Bob Fosse, Io & Annie di Woody Allen, Re per una notte di Martin Scorsese, titoli chiave per un’erigenda lista inevitabilmente approssimativa per difetto. E ne ha avuto bisogno, tanto quanto i night club e i palchi di tutte le dimensioni, nel momento in cui l’arma verbale e mimica di costruzione di massa agitata da questi grandi “kings of comedy” è stata l’irriducibilità al sessismo, al moralismo e al razzismo diffuso; quindi il no categorico alle guerre, alle ingerenze verso le libertà individuali e collettive o, come si diceva in epoche di protesta autentica, allo sfruttamento globale e neocapitalista della società. Se il binomio sesso e stand-up sia poi materiale per discorsi reazionari o progressisti è pura questione di lana caprina. Quando si centra un bersaglio, vuol dire che il problema c’è; e che la cancrena del potere infelice e privo di spirito deve scontare l’offensiva della potenza gioiosa di chi fa ridere ma non scherza. «La verità non fa mai il gioco di nessuno», diceva Danilo Dolci, e l’arte di offendere i permalosi trova il suo massimo riscontro in chi, debitamente scovato, non possiede né autoironia né sano umorismo. Per farsene un’idea basterebbe recuperare il bellissimo Saturday Night di Jason Reitman, circolato lo scorso anno in sordina nelle sale italiane e che in tempo reale, aristotelico, rievoca le quasi due ore che precedono la prima messa in onda l’11 ottobre del 1975 del seminale show della NBC che ha più o meno lanciato tra i tanti John Belushi e Dan Aykroyd, Gilda Radner e Chevy Chase, Jane Curtin e Andy Kaufman, Laraine Newman e Billy Cristal.