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Fenomenologia della kermesse: la radio ci pugnala con il festival dei fiori

 
dorella cianci

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Fenomenologia della kermesse: la radio ci pugnala con il festival dei fiori

Perché allora partire proprio dal ’68 per parlare di Sanremo?

Lunedì 10 Febbraio 2025, 16:30

Nel «Barbiere di Siviglia», il commediografo de Beaumarchais scrive che «tutto finisce nelle canzoni» o «in canzonette», per ricalcare quello spot di Pippo Baudo per il Sanremo del 1968. A pensarci bene è proprio così che accade nei giorni del Festival di Sanremo ed è così che è sempre accaduto.

Mentre i carri armati sovietici entravano a Praga, in Italia, a febbraio di quell’anno, si sentiva nell’aria Canzone per te di Endrigo, giunta poi, nella serata conclusiva della manifestazione canora, al primo posto, davanti a Canzone di Celentano. Tra i bocciati di quel famoso ’68 ci furono Tony Renis, Domenico Modugno, Johnny Dorelli e Iva Zanicchi. Quel ’68 fu l’anno di molti grandi debutti, da Massimo Ranieri ad Al Bano, ma fu anche il festival dei musicisti jazz di ottima qualità, come la celebre esibizione di Louis Armstrong.

Perché allora partire proprio dal ’68 per parlare di Sanremo? L’esempio viene utile poiché, per tanti, risulta incomprensibile come mai, alla luce dei grandi sconvolgimenti mondiali, il cittadino italiano, per settimane metta tutto in stand by. Siamo sicuri che è un fenomeno banale? Il teorema Sanremo si poggia su una perfetta sincronicità di «sensazioni auditive» e sul gioco della «visibilità» - ai nostri giorni il “caso” Achille Lauro docet -, per cui i due sensi, per alcuni giorni all’anno, combaciano straordinariamente e diventano una eco per gli eventi storici. Non è un caso che da quel palco siano passati intellettuali, premi Nobel, politici italiani e internazionali, non è un caso che, nell’84, gli operai dell’Italsider chiesero attenzione proprio da quel luogo: Sanremo è un megafono da ascoltare e, al tempo stesso, una lente d’ingrandimento da vedere.

Pasolini aveva scritto, per il Sanremo del ’69, che era tutto una «povera idiozia». Quell’anno, in gara, c’erano anche due brani entrati, poi, nella storia della musica pop italiana: Ma che freddo fa di Nada e Un’avventura di Lucio Battisti. Anche in questo caso, Pasolini osservò, con sconforto, a suo dire, la condizione di passività dello spettatore di fronte alla tv e l’effetto dello schermo sulla vita italiana. «È cominciato ed è finito il Festival di Sanremo», scrisse Pasolini, «Le città erano deserte; tutti gli italiani erano raccolti intorno ai loro televisori. Il Festival di Sanremo, e le sue canzonette, sono qualcosa che deturpa irrimediabilmente una società».

Probabilmente questo potrebbe essere stato un grande errore di un genio come Pasolini. Quel ’69, per esempio, aveva visto le strade di Sanremo tappezzate del singolare Controfestival di Dario Fo e Franca Rame e questo evento va letto con un’altra chiave interpretativa: ascoltare, non ascoltare, protestare o ammirare quel momento pseudocanoro è anche un modo per prendere la parola su temi sociali. Dario Fo lo aveva compreso. Sapeva che l’idea di un «controfestival satirico» era un modo mettere alcune problematiche sotto la lente. Esattamente come fecero le femministe, quando protestarono, nel ’76, contro la canzone di Antonio Buonomo dal titolo La femminista, con quel bruttissimo testo, che recitava «bruci in piazza un reggipetto».

Sanremo, nell’occhio di Dario Fo, non era omologante, ma era il medium per raccontare l’Italia a se stessa e al mondo. È per questa ragioni che grandi intellettuali, da Montanelli a Oriana Fallaci, si interrogarono su quel fenomeno sanremese, che ha avuto protagoniste importantissime come la paroliera Mimma Gaspari, figura chiave della storia della discografia italiana.

Facciamo un piccolo passo indietro e andiamo al Sanremo del ’64, dove la scena fu presa dalla donna, dalla famiglia ai tempi del boom e, come ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera del 2005, «Non sono solo canzonette». La vittoria di Gigliola Cinguetti con Non ho l’età è stata la conferma della teoria di Gramsci, secondo cui il mutamento ineguale fra fattore economico e politico fa sì che la mentalità delle persone cambi con più lentezza rispetto al «boom economico». La canzone della Cinguetti era la risposta, tutta italiana, a Nabokov del ’55 con Lolita: pian piano si tracciava la linea del cambiamento, ma il vero traghettamento, qui da noi, non poteva avvenire esclusivamente a colpi di ’68. Occorrevano precedenti mutamenti di costume, passi da formica, insieme a quelli da gigante e, nel ’66, la stessa Cinguetti dichiarò ai rotocalchi: «Io sono priva di stupidi tabù». Erano i primi passi che, anche grazie a Sanremo, si muovevano contro il bigottismo e la pressione sociale, fino all’irruzione impetuosa di Mina. 

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