Sabato 06 Settembre 2025 | 12:55

Se il cinema diventa fluido l’acqua scorre come la pellicola

 
Massimo Causo

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Massimo Causo

Se il cinema diventa fluido l’acqua scorre come la pellicola

C’era qualcosa, nell’immagine analogica che aveva a che fare con l’acqua e che è andata persa nell’era digitale

Lunedì 27 Gennaio 2025, 12:45

C’era qualcosa, nell’immagine analogica che aveva a che fare con l’acqua e che è andata persa nell’era digitale. Qualcosa di fluido, rilucente e cangiante che riguardava la trasparenza della pellicola, che potevi osservare controluce proprio come osservi la limpidezza dell’acqua in un bicchiere. Oppure quei rotoli di negativi che i fotografi ti consegnavano assieme alle foto stampate, strani simulacri spettrali in cui potevi vedere invertiti i colori della gioia dei tuoi viaggi o delle feste: sinuosi come anse di un fiume, sfuggenti come rivoli che scorrono tra le mani...

L’acqua del resto ha la stessa inafferrabilità delle immagini, impossibile trattenerla tra le dita se non sta in un contenitore: un bicchiere, ovvero una foto, il nastro di un film. Ai tempi in cui c’era la pellicola, il cinema era qualcosa che stava nelle anse chilometriche delle “pizze” che scorrevano in cabina o che strisciavano come bisce se succedeva che la bobina lasciasse srotolare il suo corpo di celluloide per terra. L’acqua, insieme ai solventi, era il destino che attendeva le pizze dei film, quando il loro ciclo vitale era terminato e le si portava al macero per recuperare la cellulosa e trasformarla in nuova pellicola per altre proiezioni, altre storie, altri divi, altri sogni... Un bagno di acqua e acidi era del resto quello che fissava le immagini analogiche sulla pellicola o sulla carta, in un processo di cura che aveva qualcosa di sacro, che l’oscurità necessaria rendeva un rito ancor più misterico. E poi c’era il bagno, quella ondivaga risacca provocata nella bacinella dalle foto immerse e agitate, attendendo che l’immagine emergesse lentamente dal bianco della carta fotografica...

L’acqua è la matrice del movimento, scorre come la pellicola, fluida come il gesto fissato su pellicola, fotogramma dopo fotogramma, attimo dopo attimo, goccia dopo goccia. O con la veemenza di un’onda che si infrange su una roccia in La Vague, l’esperimento “cronofotografico” di Étienne-Jules Marey che nel 1891 fissò l’inafferrabile movimento dell’acqua en plein air. Un solo secondo di risacca per un’immagine che non riesci a trattenere: un “caos sensibile”, direbbe Theodor Schwenk, al quale dobbiamo l’intuizione che «la legge del pensiero è la stessa che governa l’acqua, sempre pronta ad adattarsi a ogni circostanza». È da questo straordinario ingegnere antropologo tedesco che Patricio Guzmán, il grande regista documentarista cileno, si è fatto ispirare dieci anni fa la forma limpida e fluida di uno dei suoi film più belli, La memoria dell’acqua, in cui ripensava al dolore della storia del suo popolo mettendo insieme il dramma dei Selknams, la popolazione dell’acqua, nativi sudamericani sterminati dai colonizzatori, e quello dei desaparecidos di Pinochet, dispersi nei fondali dell’oceano...

Che ci sia qualcosa di panico e di atavico nella drammatizzazione dell’acqua deve averlo capito anche il disegnatore lettone Gints Zilbalodis, che ora si accinge a vincere con ogni probabilità un Oscar per Flow, film animato dove l’acqua, con tutta la sua possanza quasi biblica, è l’unica vera protagonista: il mondo è sommerso, tutto è travolto da un’onda che travolge case, boschi, animali e in questo caos fluido solo un piccolo gatto combatte per sopravvivere, unendosi a pochi altri animali che solidarizzano per la salvezza. Zilbalodis osserva un mondo in cui la solidità degli elementi si dissolve nella fluidità dell’acqua che tutto livella, contenendo ogni diversità, ogni singolo dramma, ogni storia e offrendola a una corrente che porta via ogni ragione che non sia quella del restare a galla, del sopravvivere aggrappandosi a qualcosa e trovando una nuova vita. Prospettiva esattamente opposta a quella raccontata dal grande regista iraniano Amir Naderi in Acqua, vento, sabbia, l’ultimo film che ha girato nel suo paese (era il 1989) prima di lasciarlo per trasferirsi in America. L’esito vitale però è il medesimo: qui c’è un ragazzino disperso nella siccità che ha desertificato il suo villaggio e vaga solo in cerca della sua famiglia e di un po’ d’acqua. In uno scenario inaridito dalla morte, la forza dirompente della vita è tutta affidata all’acqua che con la ragione della disperazione questo bambino riuscirà a strappare alla terra arida.

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