di Michele Partipilo
Sul caso dell’intervista al figlio di Totò Riina molto è stato detto, sebbene in maniera confusa. L’impressione che se ne ricava è che si è speculato su un’operazione giornalistica che è risultata strana, perché strana è diventata l’Italia. La principale vittima appare Bruno Vespa, padre e padrone di «Porta a Porta».
Cominciamo con qualche distinguo. Può essere criticato il modo in cui il giornalista ha condotto l’intervista, le domande che ha fatto, i toni utilizzati: solo questo può essere legittimamente contestato a Vespa. Ma in uno Stato democratico, in cui l’informazione è ritenuta – giustamente – la testata d’angolo del suo ordinamento, nessuno può mettere in discussione la libertà del giornalista di intervistare chiunque susciti un interesse pubblico. «È diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d’informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti». Questo dice l’articolo 2 della legge professionale. Un articolo, si badi bene, scritto con l'approvazione di un tale che si chiamava Aldo Moro, maestro di diritto e di moralità.
Vespa si è difeso con una lettera sul Corriere della sera in cui ha ricordato le interviste di Enzo Biagi a Luciano Liggio e Tommaso Buscetta, di Joe Marrazzo a Cutolo, di Sergio Zavoli ai brigatisti, di Santoro a Ciancimino jr. Giusto, si tratta però di altri giornalisti, che potrebbero aver commesso lo stesso errore imputato a Vespa. Il problema è alla base, nella confusione – frequente anche fra gli addetti ai lavori – tra giornalismo etico ed etica del giornalismo. Non si tratta di un gioco di parole, ma del sottile muro che separa realtà opposte.
Il giornalismo etico origina un’informazione in cui è deciso a priori che cosa è il bene e che cosa è il male, per cui ci sono argomenti di cui è lecito parlare e altri che si devono tacere. Esso è proprio di tutti gli Stati etici, ovvero delle dittature. Nelle democrazie vige, invece, l’etica del giornalismo. I giornalisti, cioè, ispirano il loro agire a principi condivisi che sono propri dello Stato democratico. Ne possiamo citare alcuni, ben presenti nella deontologia professionale, come il rispetto della verità dei fatti, il rispetto delle persone e della loro intimità, il rispetto delle fonti. Lo stesso articolo 21 della Costituzione pone un unico limite interno alla libertà di espressione ed è quello del buon costume. Dopodiché questa libertà va bilanciata solo con altre libertà di pari rango.
Vespa ha esercitato fino in fondo il suo diritto (la sua libertà) d’informazione e di critica rispettando uno dei capisaldi dell’etica professionale.
Qualcosa va detto pure a proposito dell’intervista, la cui funzione nel nostro paese è stata stravolta. Lo facciamo con l’insegnamento di Umberto Eco: «Intervistare vuol dire regalare il proprio spazio a qualcuno per fargli dire quello che vuole lui. […] Una intervista seria deve prendere molto tempo, e l’intervistato (come avviene in quasi tutto il mondo) deve poi rivedere il virgolettato, onde evitare fraintendimenti e smentite. […] Compito dell’intervistatore è comportarsi col politico come un tempo si usava nelle osterie dei villaggi dove, se qualcuno aveva alzato troppo il gomito e diceva una prima frase imprudente, tutto l’uditorio faceva del suo meglio per stimolarlo e portarlo a passare ogni limite». Sono i passaggi essenziali di un saggio scritto nel 2001, ma la sostanza non può essere messa in discussione oggi che l’informazione ha visto moltiplicare per mille il suo ruolo.
Scalpore ha suscitato il fatto che Riina jr abbia firmato la cosiddetta «liberatoria» solo dopo la registrazione dell’intervista. La sorpresa nasce rispetto alla prassi della Rai. Forse qualche spirito libero – alla luce anche dei diritti che Umberto Eco e la maggior parte dei giuristi riconoscono all’intervistato – dovrebbe interrogarsi se sia una prassi apprezzabile quella di concedere una liberatoria «a scatola chiusa». La mia apparizione in tv, quello che ho detto, le impressioni che ho suscitato, potrebbero essere diverse da quella che è la mia identità personale. Nella civiltà mediatica si va affermando il diritto a essere rappresentati per quello che si è oggi e, dunque, ciascuno deve avere la possibilità di intervenire su una rappresentazione sbagliata o inattuale di se stesso. Il diritto all’identità personale sta riassumendo gli altri diritti della personalità – come all’onore e alla reputazione – proprio in virtù della prevalenza di ciò che è mediaticamente rappresentato rispetto a ciò che esiste nella realtà fisica.
Vi è poi il discorso relativo alla mafia, che sconfina da questo ambito, ma sul quale due parole vanno pure dette. Un'intervista a Riina jr non può che provocare sofferenze e dolore in chi è stato direttamente colpito. Dobbiamo però decidere una volta per tutte se la mafia – alla pari della corruzione – vogliamo indagarla fino in fondo per capirne le logiche, i meccanismi di sottomissione, le crudeltà, le affinità politiche e combatterla per davvero, oppure continuare a mostrarla come male assoluto, che in quanto tale non può essere sconfitto, e col quale dunque bisogna in qualche modo convivere, cioè scendere a patti. Come sta accadendo con alcuni testimonial delle associazioni antimafia coinvolti in inchieste che li accusano.
Ai familiari delle vittime della mafia deve andare – in concreto e non con quattro insulti rivolti a Vespa – la solidarietà di questo Paese e la riconoscenza dello Stato. È troppo facile dimenticarsene nelle difficoltà di ogni giorno e fare mostra di sdegno a ogni occasione pubblica.
Resta il giudizio sulla trasmissione di Vespa, che può essere solo un giudizio sul modo in cui il giornalista ha realizzato l’intervista e non certo sul suo diritto a farla. Perché se oggi contestiamo la libertà di intervistare Riina, domani contesteremo quella di intervistare il capo dell’opposizione al governo e dopodomani negheremo il diritto di parola a chi non è allineato e coperto. Ci vuole poco a passare alle interviste preparate dagli uffici stampa (già ne circolano un po’) e a dare voce al pensiero unico. Uno Stato democratico questo non può permetterselo. Altrimenti non è più tale e i suoi cittadini – tutti – devono cominciare a preoccuparsi seriamente delle loro libertà.