Persino più «straordinaria» dell’edizione straordinaria stessa è la polemica che ha preso vita in occasione dell’annuncio shock in tv della morte di Papa Francesco, nella mattinata del Lunedì dell’Angelo e all’uscita (infelice) di Antonio Dipollina, sulle pagine del quotidiano La Repubblica.
Nel raccontare la notizia data al Tg1 dalla collega Valentina Blisti, si è infatti soffermato su dettagli che non sfiorano neppure da lontano la pertinenza giornalistica. Elogiando l’efficienza e il tempismo con cui il telegiornale ha comunicato la scomparsa di Bergoglio, Dipollina si è preso la briga di sottolineare come la conduttrice non abbia «avuto assolutamente il tempo di passare dal trucco». Forzando un po’ la mano, è come se il riflettore si fosse spostato presto dal significato al significante, per dirla col linguista strutturale De Saussure: il contenitore diviene così più importante del contenuto.
Nella stessa serata di Pasquetta lo screen-shot, raffigurante il testo con le affermazioni di Dipollina, aveva già fatto il giro dei social network seguito, da un lato, da commenti intrisi di una certa maschio-italica ilarità. Dall’altro, la comunità di lettori, redattori e cittadini per i quali il fatto che una giornalista possa essere o meno truccata non costituisce una discriminante. A dirla tutta non rappresenta neppure un fatto, figurarsi una notizia.
Inevitabile che la querelle mediatica abbia sollevato interrogativi sul modo in cui un dettaglio tanto personale, come quello del maquillage, possa essere funzionale all’informazione o, se non altro, un elemento “divisivo”, come è in voga dire oggi.
In realtà, i limiti del diritto di cronaca sono già abbondantemente elencati dal Codice deontologico contenuto nel Testo unico della professione giornalistica, così come da una storica sentenza della Corte di Cassazione, la numero 5259 di oltre quarant’anni fa, che rimarca l’interesse pubblico come criterio indispensabile per fare di un fatto una “notizia”.
Il punto più interessante della vicenda, tuttavia, sembra essere un altro: il commento non richiesto sull’aspetto fisico di una professionista, o sul suo trucco, o sul suo outfit, o sul colore dei capelli, non sciocca più neppure la comunità femminista. Commenti del genere non hanno più la connotazione sorprendente di qualcosa di “out of the box”, di fuori dagli schemi. Imbellettarsi, piacere e compiacere - anche in ambiti professionali dove l’estetica dovrebbe passare in secondo piano rispetto alle competenze culturali e tecniche – è diventata una consuetudine che, nei secoli, ha preso sempre più piede. Quel «consigliabile bella presenza» che ora è divenuto tassativo. Ineluttabile. In occasione di un incontro pubblico, alcuni anni fa, il cui tema era la violenza di genere, mi ero rivolta a studenti e studentesse, avviando il dibattito con una premessa. Avevo raccontato loro del paio di ore in più che, quel mattino, avevo impiegato rispetto al collega presente all’evento, per essere “impeccabile”. Come società richiede.
Avevo addosso una camicia che mi era toccato stirare all’alba. E le mani curate, perché su «una donna sono importanti». I capelli erano stati sistemati dal parrucchiere la sera prima: è segno di grazia e di stile. E in più avevo sacrificato il tempo di un caffè per potermi truccare. Cosa che, ça va sans dire, non era invece toccata al mio collega. Lui, di contro, si era presentato a scuola con una polo e dei pantaloni sportivi con le tasche Un comodo paio di sneakers e nessuno che abbia osato azzardare commenti. Temo, tuttavia, che dietro a questa sorta di pretesa sociale, vi sia la connivenza delle donne. La responsabilità risiede nel fatto di voler ancora dimostrare il valore professionale, a prescindere dal tipo di incarico, sommandovi un plus estetico. Ci prestiamo a un “voto” su trucco e bellezza, anziché essere valutate per le prestazioni lavorative. Sarebbe per esempio un sogno se ci emancipassimo dagli obblighi di sembrare curate e perfette. Se il trucco diventasse un’autovalorizzazione straordinaria, estemporanea come lo era per le nostre nonne - che ne facevano uso in occasione delle feste - anziché farne un doveroso automatismo quotidiano. Se uscissimo dalla logica tribale del “vedere cammello”: lasciateci lavorare in santa pace, struccate e libere.