Dopo l’articolo del direttore Oscar Iarussi sul Mezzogiorno delle «aree interne» (23 luglio), abbiamo pubblicato gli articoli dello scrittore Giuseppe Lupo, dell’economista dei trasporti Angela Stefania Bergantino, dell’economista Antonio Troisi e un intervento del presidente della Regione Basilicata, Vito Bardi. Oggi interviene il sindaco di Moliterno e presidente della Comunità del Parco Nazionale Appennino Lucano Val d’Agri Lagonegrese, Antonio Rubino.
Nel suo editoriale di domenica scorsa (nel quale cita anche la vivacità culturale della nostra Moliterno), il direttore Iarussi ha aperto un dibattito (merce rara in questo afoso luglio - non che sia più diffusa con temperature miti a queste latitudini), al quale si sono uniti Giuseppe Lupo (è una fortuna quando uno scrittore ragiona di temi strategici per lo sviluppo dei territori), Vito Bardi (quale voce più autorevole del Presidente di una Regione), gli economisti Bergantini e Troisi (abbiamo bisogno di loro per capire «cosa fare»).
Il giornale svolge così un ruolo determinante. Sbaglia chi pensa che discutere sui giornali sia esercizio di stile o manierismo da intellettuali. Abbiamo bisogno di intellettuali! Ogni giorno chi fa politica, chi amministra deve essere in grado di «elaborare pensiero». Occorre poggiare le nostre azioni su un pensiero che sia in grado di creare sistema, visioni e azioni ancorate a un modo di guardare il mondo e alle interpretazioni concrete della realtà. Abbiamo bisogno dei giornali! Luogo di confronto, dove per elaborare ancora pensiero, fondamenta per non costruire ancora e solo cattedrali nel deserto, pale eoliche, musei della civiltà contadina.
Con umiltà (come se scrivessi viaggiando sul treno Roma-Foggia, ignorato e snobbato da un gruppo di lanzichenecchi) vorrei esternare un mio pensiero, nato su 3 parole chiave emerse dai vari interventi.
Scrivo dal mio ufficio, dove ogni tanto bussa qualcuno: c’è chi entra per parlare dei più disparati problemi quotidiani, ma anche l’imprenditore che non riceve pagamenti dalla P.A. e il padre di famiglia che non può fare la spesa (ma non prenderà la card per gli acquisti alimentati del Governo). Qualcuno deve rispondere a queste e altre istanze, in Italia è in crisi il concetto di sussidiarietà. L’analisi che mi auguro non sia tediosa parte da questo osservatorio sulla realtà, siamo con i piedi nel fango dei problemi di tutti i giorni, a difesa dei nostri campanili, ma su di essi proviamo a salire per allargare lo sguardo e non piangerci addosso.
Aree interne. Non è più tempo di ragionare di ossa e polpa. Bensì di infrastrutture e connessioni. La pandemia ha messo in crisi, in modo drammatico, il sistema direzionale che vedeva nei grandi centri i poli attrattori del tutto. L’eccellenza metropolitana con la crisi del Covid ha fatto emergere con dolore le disuguaglianze. L’emergenza sanitaria scava due solchi da riempire: uno è sull’aspetto sanitario, non regge l’idea di presidi sanitari nei grandi centri con lo smantellamento dei presidi territoriali. Il secondo solco da coprire è quello che vede l’Italia dei piccoli Comuni, dei piccoli agglomerati, contrapposta all’idea che gli unici incubatori di crescita sono i grandi centri (in Italia ci sono 5.534 Comuni sotto i 5.000 abitanti, che rappresentano il 70,04% del numero totale dei Comuni italiani). Un ciclo storico che invertirà il destino di morte dei piccoli Comuni può innestarsi sull’idea che la qualità della vita va preservata a partire dai piccoli centri (li dove è anche più facile garantirla se si investisse). Ma, questo non serve per raccontare la favola (anzi, la bugia) del ritorno dei giovani al Sud. I giovani hanno diritt di muoversi su uno scenario globale, mentre lo Stato ha l’obbligo di investire in infrastrutture per il collegamento dei piccoli centri (non solo al Sud) per garantire pari opportunità sui territori: prima su quelle telematiche e poi anche su quelle strade mai costruite per favorire la coesione territoriale. In questo è oro colato la visione degli «interventi sartoriali», cuciti sulle vocazioni dei territori, di cui parla il Presidente Bardi. Significherebbe investire sul 70% dell’Italia e salvarla. Significherebbe creare opportunità per nuovi investimenti in aree con grandi potenzialità ma tagliate fuori perché non collegate.
Ma quanto è vecchio questo tema? Tuttavia, in questo periodo incontro molte persone che rientrano da Roma, Milano, Bologna, e mi dicono che riscoprono la vitalità delle aree interne a confronto della omologazione «depensante» dei grandi centri: cosa facciamo per diventare attrattivi? Pnrr. Ci abbiamo creduto. Il mio Comune sta ristrutturando il teatro, costruendo una nuova scuola, progettando nuove ristrutturazioni e interventi di viabilità con le risorse del Pnrr. Una coltre pesantissima sta soffocando tutto, si chiama burocrazia. Piccoli Comuni senza personale arrancano per inseguire procedure cervellotiche, mentre scoprono che finanziamenti milionari ottenuti arriveranno nelle casse solo dopo aver anticipato i pagamenti (come fa un Comune piccolo ad anticipare centinaia di migliaia di euro?). Non esiste una visione di insieme degli interventi previsti, la sconnessione tra livello nazionale e realtà locali è totale. Ci sono i presupposti per un grande bluff: salvare il salvabile è ancora possibile? Oltre a piattaforme per rendicontare, monitorare, inserire documenti, serve il tempo per capire il perché e dove stiamo andando. L’Italia del Pnrr è senza bussola. Eppure l’Italia del Pnrr doveva muoversi sulle gambe dei piccoli Comuni, maggiori soggetti attuatori, ma al momento la coltre pesantissima non fa muovere quasi nulla e non fa vedere un orizzonte per Italia domani (ammesso che ci sia).
Non luoghi. Infatti, costruiremo una nuova scuola nel nostro paese, ma la notte penso sempre a quanti nati e quanti morti ci sono a Moliterno, al saldo negativo. Anche in questi giorni di caldo torrido si sente il freddo di un inverno demografico che è il vero e grande problema del vecchio continente, non solo del mio paese. È un’urgenza sostenere la famiglia. La natalità è in crisi anche per la precarietà del lavoro? Cosa si farà per dotare di servizi le aree interne? Non siamo borghi da visitare, ma paesi in cui vivere. Non può stare sulle spalle di una Amministrazione locale il peso di «inventarsi» il servizio per l’asilo nido, per la sanità, per la mobilità. Non solo, la sussidiarietà deve poi trasmettere una rete orizzontalmente sul territorio, non andiamo lontani se non andiamo uniti e non ci associamo. Ma per ora la rete è impigliata per mal funzionamento degli strumenti a disposizione. In questi giorni abbiamo provato a dare un esempio: la mia comunità era candidata a Capitale italiana della Cultura 2026, come Maratea. Abbiamo deciso di unirci e presentare un’unica candidatura. Ecco a cosa serve la cultura, a fornire elementi, interpretazioni dei tempi e del mondo, strumenti per leggere e vincere le sfide che viviamo.
Nella nostra Val d’Agri come investiamo le risorse che derivano dalle estrazioni petrolifere nel famoso ambito «no oil»? Come creiamo nuove attività, sostenendo e invogliando nuovi investimenti? Al momento non lo sappiamo, siamo soffocati dal contingente, perché serve una visione di insieme e partecipata che tenga uniti i livelli verticalmente e orizzontalmente sul territorio.
Se non torniamo ad elaborare pensiero non potremmo dare risposte a queste domande.
La Basilicata deve lasciarsi alle spalle il levismo, riscoprirsi una regione moderna inserita in un contesto europeo, che non ha bisogno di politiche speciali ma che deve funzionare in un sistema Paese alla pari con altri territori. In questi giorni, è stato ospite a Moliterno lo scrittore Maurizio De Giovanni. Ha detto che la Basilicata ha bisogno di uno specchio, così da vedersi interamente con le sue potenzialità e acquisire maggiore autostima. Penso che abbia ragione, lo specchio non può che costruirlo la politica, per ridare, come dice giustamente il presidente Bardi, fiducia alle persone. Senza quella fiducia, vincerà il fatalismo.