La Premier scozzese, Nicole Sturgeon, da otto anni alla guida del governo, si è dimessa. La stampa internazionale ha registrato e diffuso un suo doloroso commento: «Lascio perché la politica è brutale».
Neanche un mese fa Jacinda Arden, primo ministro della Nuova Zelanda, ha compiuto lo stesso gesto, dopo cinque anni e mezzo alla guida del governo laburista. Le sue parole a commento sono state chiare e disarmanti: «So quale impegno richiede questo incarico. E so che non ho più abbastanza energie per ricoprirlo come si deve. È così semplice». Due donne ancora giovani, al vertice dello Stato nella scarna panoplia del potere politico femminile nel mondo occidentale, entrambe di cultura anglo-sassone, lasciano lo scranno più alto che la politica conosce in democrazia, con gesti che non occultano la sofferenza, ma che, proprio per questo, si riempiono di valore.
La scabra accoglienza che quelle scelte hanno avuto nelle nostre pubbliche opinioni mediterranee, ci restituisce forse l’eco di un pregiudizio diffuso che, oltre le parole d’ordine assolutorie scandite sovrappensiero col mantra del «politicamente corretto», porta dentro diffidenze ancestrali e pensieri remoti. Come quelli del filosofo ed economista Jean Bodin, «influencer» francese blasonato, che, verso la fine del Cinquecento scriveva dell’arte del buon governo, raccomandando di tenere lontano le figlie di Eva dalla politica, perché le donne sono notoriamente in combutta con Satana e inclini alla sovversione (Demonomanie des sorcies, 1580).
E pensare che, secondo lo storico e antropologo Bachofen (Il Matriarcato, 1861, ed. Italiana 1988), in origine tutto il potere era posto nelle mani delle donne, in una dimensione che riproduceva in modo speculare lo schema patriarcale, con tanto di trasmissione del blasone alle primogenite femmine, una legge salica rovesciata. Ma, lasciando agli amanti del genere la saggistica di genere, resta il tema, serio, del potere e dell’umano limite: la politica e l’istituto delle dimissioni. Il panorama italiano non è affollatissimo di gesti d’abbandono, a meno di costrizioni invincibili, coltivando il proposito del ritorno alla prima occasione.
In altre culture politiche, invece, le dimissioni non sono una rarità. Il cultore delle ragioni di genere ricorderà che la politica italiana si è sempre declinata al maschile in una specie di ring perpetuo dove chi mena per primo mena due volte.
Insomma: non sarebbe un pranzo di gala, non una festa letteraria, non un disegno o un ricamo, da eseguire con gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità, diceva Mao della rivoluzione, ricordando che altro non era se non un atto di violenza. D’altro canto Mao Tse non rappresenta propriamente un modello di virtù femminista.
Insomma, le dimissioni volontarie e non costrette non meritano, nell’edizione italiana del libro maestro della politica, neanche una nota a piè di pagina: semplicemente non sono previste. È una politica scritta dagli uomini, praticata sul ring e offerta alle donne come modello.
Eppure la politica, se trova un formidabile propulsore nella passione sincera, asciuga tutte le tue energie, rischia di rubarti pezzi di umanità, di sacrificare nella sfera del tuo privato tranci di vita di innocenti, di chi ha avuto la ventura di starti vicino, lacerti consistenti della tua persona.
Basta il rumore degli applausi e l’additivo del potere per bilanciare quello che perdi? Ognuno, naturalmente, risponde con la sua personale sensibilità. Una cosa è certa: accanto a donne tostissime che davano del tu al potere, lady di ferro come la Thatcher o, da ultimo, la buonanima della regina Elisabetta, il mondo anglosassone ha prodotto anche una nuova generazione di donne capaci di rinunciare allo scettro del potere, riconoscendone un’intrinseca violenza o una palese brutalità. Umane, troppo umane, direbbe il filosofo. Francamente anche molto simpatiche.