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Il dossier Taranto primo banco di prova per Meloni e Fitto

 
Mimmo Mazza

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Mimmo Mazza

Taranto, ex Ilva

Riesplode la vertenza legata al complesso aziendale ex Ilva

Domenica 13 Novembre 2022, 14:30

Affari europei, Sud, politiche di coesione e PNRR: le quattro deleghe assegnate dal Consiglio dei Ministri a Raffaele Fitto conferiscono al dicastero guidato dall’ex presidente della Regione Puglia un valore strategico in chiave di sviluppo del Mezzogiorno, soprattutto valutandone in un'ottica di insieme delle competenze e del perimetro delle stesse.
Toccherà a Fitto vigilare su tempi e obiettivi del Piano nazionale di resilienza e ripartenza e modulare gli interventi previsti con i Contratti istituzionali di sviluppo, senza dimenticare i progetti direttamente in capo all'Unione Europea e dipendenti dai suoi finanziamenti.

Il Cis è uno strumento che riguarda direttamente la Puglia tramite i due contratti di sviluppo avviati a Taranto (Governo Conte) e Brindisi-Lecce (Governo Draghi) con una dotazione finanziaria in grado di cambiare volti, prospettive, aspirazioni e infrastrutture dei territori interessati. Sul Pnrr dopo il fiume di parole, ora si attendono i fatti conseguenti, con progetti, cantieri e collaudi. Aver riunito le competenze in altre esperienze di governo parcellizzate rappresenta una scelta sicuramente da salutare positivamente perché proprio l'eccessiva frammentazione in passato ha favorito ritardi e sprechi, oltre che difetti di comunicazione con territori e comunità interessate. Ma l'unificazione delle competenze non è tutto perché occorre anche (se non soprattutto) una visione di insieme e su questo aspetto il ministro Fitto e il governo Meloni sono attesi a test molto significativi, in compagnia degli amministratori regionali e locali chiamati ad abbandonare vecchi e nuovi vessilli para ideologici per lasciare traccia concreta dei rispettivi mandati.

Uno dei dossier più scottanti per il ministro e tutto il governo Meloni riguarda Taranto e il suo stabilimento siderurgico, ieri di nuovo al centro della bufera per le 145 imprese dell’indotto messe alla porta dai gestori della fabbrica, in fitto dal novembre del 2018.

Da oltre 10 anni l'acciaieria ex Ilva è sottoposta a sequestro in quanto sospettata di essere fonte di malattie e morte per chi ci lavora e chi abita nelle vicinanze. C’è stato un processo in corte d’assise, ci sono state condanne molto pesanti ma la sentenza è ancora di primo grado e malgrado i quasi 18 mesi passati dalla lettura del dispositivo, è tutt’ora sprovvista di motivazioni, indispensabili per l’appello.

Nel frattempo, la stessa fabbrica ha divorato centinaia di milioni di euro pubblici, tiene in scacco i suoi 10mila dipendenti costretti ad una cassa integrazione perenne che taglia stipendi e comprime stili e aspirazioni di vita, mette alla prova le ditte dell’indotto costrette a finanziare di fatto l’attività del siderurgico stante le forniture sistematicamente non pagate e ora pure messe alla porta senza tanti fronzoli in attesa di chissà che cosa, assiste disorientata all'altalena dei costi dell'energia che rende economicamente impossibile – salvo ulteriore salasso per i conti dello Stato – il passaggio ai forni elettrici e dunque l'avvio della decarbonizzazione, ipoteca il futuro di una città che pur reclutando urbanisti di fama per disegnare il suo domani e mentre ospita il comitato organizzatore dei Giochi del Mediterraneo del 2026 non sa ancora se - e magari nemmeno più se lo chiede, con un processo di rimozione pubblica che potrà essere efficace dal punto di vista comunicativo ma che in sostanza appare simile al gesto di chi nasconde la polvere sotto il tappeto - quanto sul suo skyline (e sul suo stato di salute e sui suoi conti) peserà l'acciaio, in termini visivi e non solo. D’altronde proprio l'acciaio è stato per Taranto anche una formidabile arma di distrazione di massa perché invocando un intervento risolutore dello Stato sull’ex Ilva, allo stesso Stato non è stato chiesto di far arrivare l'autostrada fino a Taranto (si ferma 20 chilometri prima), di garantire collegamenti ferroviari a una velocità decente con il resto d’Italia, uno sviluppo portuale non più solo ex Ilva-dipendente, una università autonoma e tanto altro ancora.

Il governo Meloni sa bene quanto sia complicato il dossier Taranto e Ilva, tanto da aver chiamato a rapporto nei giorni scorsi, come risulta alla Gazzetta, i commissari di Ilva in As e gli amministratori di Acciaierie d'Italia, società affittuaria del complesso aziendale ex Ilva partecipato dalla multinazionale ArcelorMittal (azionista di maggioranza) e da Invitalia, società pubblica controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Ma ora tocca innanzitutto al ministro Fitto, in stretto raccordo con il ministro Giorgetti, responsabile del Mef, azzerare il passato – anche nominando nuovi commissari e amministratori – e disegnare il futuro.

Sono stati in tanti a dire nel passato più o meno recente che se riparte Taranto, riparte l'Italia. Alle parole, però, sono seguiti pochi atti concreti e spesso in contraddizione tra di loro, molte volte inspiegabili ai tarantini e ai pugliesi che rispetto alla lunga serie di decreti salva-Ilva varati dal 2013 a poche settimane fa, ancora attendono un decreto salva-Taranto.

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