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Una settimana da premier tra battaglie «lessicali» e avversari troppo deboli

 
Francesco Intini

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Francesco Intini

Giorgia Meloni

Lunedì 31 Ottobre 2022, 14:26

È stata la settimana di Giorgia Meloni: la prima donna Presidente del Consiglio si è presentata alle Camere, ha ottenuto la fiducia e ha dato una prima direzione all’azione politica del suo governo.

Lo ha fatto con un discorso marcatamente politico, fieramente di destra, deciso e per certi versi arrogante. Comunque un buon intervento, in pieno stile Meloni, che contribuisce a svelare l’indirizzo comunicativo di una leader maggiormente abituata alle dinamiche urlate e aggressive della politica mediatizzata, e certamente meno avvezza a quelle più posate e ovattate delle istituzioni. Se, nel corso delle sue dichiarazioni programmatiche, Meloni è riuscita a mantenere un tono comunque misurato, è durante le repliche agli interventi di Deputati e Senatori, invece, che è emersa la natura più battagliera e meno istituzionale del Presidente: dal reiterato uso del tu rivolto all’on. Soumahoro fino alla poco gentile espressione, catturata dalle telecamere, riservata ad un altro ex inquilino di Chigi come Giuseppe Conte. È d’altronde la dimensione comunicativa del corpo a corpo quella a cui Meloni è più abituata e in cui si sente più a proprio agio, come poi testimoniato dal fulminante «mi guardi, onorevole Serracchiani» con cui si è rivolta alla capogruppo del PD.

Le parole sono importanti, ammoniva Nanni Moretti in una celebre scena di Palombella rossa, e Giorgia Meloni sembra averle scelte, nelle sue prime uscite pubbliche, con cura e attenzione. A partire dalla discussa decisione di utilizzare l’articolo maschile il a precedere, nelle comunicazioni istituzionali, Presidente del Consiglio: una scelta conservativa che non normalizza la presenza di una donna in un ruolo generalmente occupato dagli uomini e anzi ne sottolinea l’eccezionalità, limitando la portata dirompente e rivoluzionaria che avrebbe avuto l’uso dell’articolo femminile.

Nel suo discorso, tuttavia, e in linea con una leadership che vuole apparire trasversale tanto all’interno della coalizione quanto in Europa, Meloni ammorbidisce i toni rispetto al passato e mette da parte il vocabolario patriottico-sovranista che era solita utilizzare: la «patria» è citata in una sola occasione, e lunghi passaggi sono dedicati a Europa ed economia. Emerge solo, a titolo di curiosità, la netta prevalenza del termine nazione rispetto a Paese, preferito invece dai discorsi di insediamento dei suoi predecessori.

La coerenza, uno dei pilastri su cui ha fondato la propria leadership, è poi assicurata dalla citazione di temi non prioritari ma dall’alto valore simbolico - il passaggio sulla cannabis, ad esempio - utili a definire un contorno ideologico entro cui presentare il proprio manifesto programmatico.

Manifesto che si chiude, poi, con la definizione che la Meloni dà di sé: un underdog - quello che nel linguaggio anglosassone, in una competizione, è riconosciuto come lo sfavorito - pronto a tutto per «stravolgere i pronostici». Ma Giorgia Meloni, già Vicepresidente della Camera e poi Ministro a soli 31 anni, è piuttosto l’outsider della politica italiana: perché donna, perché giovane, perché di destra.

Se la prima settimana da Presidente del Consiglio di Giorgia Meloni è filata così liscia, parte del merito va anche ascritta a un’opposizione apparsa finora piuttosto dimessa: da quella bifronte di Renzi, che nel suo intervento ha attaccato più spesso il Partito Democratico rispetto alla stessa Premier a cui si apprestava a non concedere la fiducia, fino a quella di un centrosinistra ancora incapace di trovare una chiave comunicativa convincente.

A fronte di un’opposizione ancora debole e incapace di fare fronte comune, sarà quindi interessante comprendere le modalità comunicative con cui Meloni interpreterà il nuovo ruolo. Prima del referendum costituzionale che ne ha poi pregiudicato l’intera carriera, ad esempio, Matteo Renzi aveva compiuto un’operazione coraggiosa ma vincente, facendo totalmente coincidere la sua figura di segretario del PD con quella di Presidente del Consiglio che nel frattempo ricopriva. Stava maturando, con lui, un nuovo modello di leadership - funzionale tanto al partito quanto allo stesso Renzi - trasversale e istituzionale, quasi al di sopra delle parti, capace di raccogliere consensi sia a destra che a sinistra. Per Meloni, però, un’interpretazione di questo sarebbe certamente più difficile e ambiziosa: sia a causa di un profilo certamente più divisivo e polarizzante, sia considerate le modalità comunicative a cui ha abituato gli italiani. Rispetto all’ex sindaco di Firenze, però, Giorgia Meloni può contare su una variabile del contesto che nessuno dei leader italiani dell’ultimo decennio – da Salvini a Renzi, da Letta a Conte – ha mai avuto a disposizione: una maggioranza solida capace di garantire un orizzonte temporale definito alla sua azione di governo.

Le leadership di questa epoca - tanto quelle di partito quanto, ed è ancora più determinante, quelle di Palazzo Chigi - hanno infatti dovuto fare i conti con una modalità cooperativa di gestione del potere causata da maggioranze frammentate e spesso litigiose, frutto delle larghe intese degli ultimi anni. Una modalità, questa, che non ha permesso a nessun Premier di operare in una logica di medio-lungo periodo, e a dovere anzi spesso cedere ai ricatti degli alleati fino alle poi inevitabili fratture: dalla caduta del Governo Conte I ad opera di Matteo Salvini, fino alla recente scelta del centrodestra di votare la sfiducia al governo Draghi per poi passare all’incasso qualche settimana dopo.

Giorgia Meloni, al contrario dei suoi predecessori, avrà invece tutto il tempo e il modo di modellare la propria leadership per tutta la durata della legislatura, guadagnandosi l’opportunità - agli altri negata - di mettere fine a una stagione di leader dal consenso liquido e instabile, fra ascese improvvise e declini rapidissimi.

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