Poco più di un mese fa, riprendendo a vivere, questo giornale tornava in edicola con un titolo scotellariano: «Sempre nuova è l’alba». Non era soltanto una provocazione attinta alla poesia e nemmeno l’icona di un certo meridionalismo che dalle ceneri, sotto cui covava, tornava alla luce di una rinascita, ma il pronunciamento di un’immagine che conteneva il significato di una promessa futura, di una vittoria sul silenzio. L’alba a cui alludeva, proprio perché sempre nuova, reca in sé lo stigma di un pensiero che cercava e trovava lo slancio nelle parole di un poeta fermo al bivio tra la speranza di un risveglio e il sospetto che quel risveglio non fosse definitivo (e che altri sarebbero seguiti nell’alternarsi della notte e del giorno). Ma in questo consiste il segreto che accompagna il viaggio delle parole quando si fermano sulla carta: essere teorema di un domani, contribuire al disegno del tempo. Non poteva prendere spunto se non da qui (da dove cioè è ricominciata la conversazione di un giornale con un territorio, con una comunità di lettori) l’idea che celebrare la poesia nelle sue forme più o meno tradizionali - oggi è la giornata mondiale ad essa dedicata - sia anche una maniera per ricordarne la concreta utopia del suo esistere tra noi.
Adopero non a caso la formula tenuta in grande considerazione da Adriano Olivetti - utopia concreta - perché nulla di più poetico si è manifestato nei settori dell’industrializzazione novecentesca al cospetto di un’organizzazione aziendale come quella olivettiana, che poneva al centro della sua attenzione l’uomo e non la macchina, il suo bisogno di riscatto morale e non la logica del profitto economico, di cui nessuno nega l’efficacia, ma che non può permeare ed esaurire la spinta del progresso.
Sarà stato questo elemento a premere sulla necessità di individuare un punto di raccordo tra istanze di progettualità e rispetto per una condizione meridionale che risentiva delle sacche di una dimensione premoderna: stanno qui i presupposti ideologici del perché un visionario come Olivetti si sia così tanto interessato al Mezzogiorno. Ed è probabile che l’alba, di cui Rocco Scotellaro si faceva cantore, avesse i contorni di una libertà che derivava dalla dignità dei contadini, chiamati a uscire dal sottosuolo della Storia. L’alba che il poeta di Tricarico invoca ha la caratteristica di non essere mai uguale alle precedenti e, anche se in alcuni casi si resta nel sospetto di trovarsi di fronte a un continente ancora inesplorato – «Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado» scriveva Vittorio Bodini negli stessi anni di Scotellaro –, si tratta di un monito costruttivo, un modo per sottolineare l’urgenza di non confondere documento e interpretazione, di evitare le letture superficiali di un determinato fenomeno. Il Meridione è più complesso di quel che appare e rifiuta le facili formule, i processi di semplificazione. Invoca la rarefatta sintesi della poesia, ma non disdegna certo la tortuosità ragionativa della prosa e non perché quest’ultima appartenga a una categoria minore, come suggeriva Benedetto Croce, ma perché ogni affermazione esige il suo sillogismo, ogni tesi chiede la sua antitesi. Domandiamoci se il Mezzogiorno ha ancora bisogno di poesia e la risposta sarà ovvia.
Domandiamoci quanto utile sia a vincere il labirinto meridionale e la risposta sarà ugualmente ovvia. Lanciata in questo modo, l’affermazione può sembrare ambigua. C’è poesia e poesia, infatti, e l’arcadia del tempo di ieri confligge con lo sguardo al tempo di domani. Ma è un problema di questo terzo millennio, tramandato a noi dalle scorie del Novecento: cantare le rovine o riedificarle? Più che essere circoscritta in una questione letteraria, è un dilemma strategico, un problema di posizionamento. La soluzione che potrebbe fare la differenza e imporre un cambio di passo nella metrica con cui avviene il racconto di questi anni, sarebbe accreditare un’ipotesi che possiede la qualifica di un azzardo: quella di considerare il poeta il «disconosciuto legislatore del mondo», così come aveva intuito Frank Lloyd Wright nella metà del secolo scorso. L’idea fece subito presa in Leonardo Sinisgalli che in una delle sue opere più geniali e contraddittorie, come Furor mathematicus, dichiarava: «A immaginare una città riesce meglio un poeta come S.J. Perse, un pittore come Giorgio De Chirico, un filosofo come Tommaso Campanella, un vescovo come Sant’Agostino, che non un architetto come Le Corbusier». Immaginare una città è come affermare che «sempre nuova è l’alba». Il che equivale a pensare che non c’è più tempo per le esibizioni della retorica, che l’organizzazione delle parole sulla carta deve obbedire a un esercizio etico.