BARI - «Gli alberi del sud portano uno strano frutto, sangue sulle foglie e sangue sulle radici, un corpo nero dondola nella brezza del sud, strano frutto appeso agli alberi di pioppo». I versi di Abel Meeropol, l’autore russo-ebreo e comunista che firmò Strange Fruit, suonano tutt’oggi come una sorta di j’accuse nei confronti di un’America che certo non impicca più i neri nei campi del profondo sud, ma è ancora capace di macchiarsi della morte di George Floyd. E induce a riflettere che, in un mondo del cinema sempre pronto a premiare l’impegno ( ma anche a creare un «caso» sulla recente, discutibile intemperanza di Will Smith), debba essere un regista afroamericano, Lee Daniels, a firmare un film come Gli Stati Uniti contro Billie Holiday, la cui anteprima è in programma questa sera alle 21 al Petruzzelli di Bari per la conclusione del Bifest, prima che la pellicola arrivi in programmazione nelle sale il prossimo 5 maggio. Strange Fruit, com’è noto, è la canzone con cui Billie Holiday – nata Eleonor Fagan nel 1915 – concludeva tutti i propri spettacoli, ma era anche un testo di denuncia nei confronti di un’America «matrigna» incline a considerare bianchi e neri più «separati» che «uguali» e che, specie negli stati del sud era, permeata da un odioso suprematismo sempre pronto a sfociare nella violenza omicida.
Su queste premesse, la canzone che il potentissimo direttore della Fbi John Edgar Hoover bollò come «antiamericana», divenne una sorta di spina nel fianco per la Holiday: non potendo essere perseguita per la sua ostinazione e interpretarla, entrò nel mirino della Narcotici che, per mano del funzionario Harry Ansliger, la incriminò a causa della sua tossicodipendenza.
Alla vicenda si è appunto ispirato Lee Daniels che, in collaborazione col premio Pulitzer Suzan Lori Park – autrice della sceneggiatura - , firma questo nuovo film sulla vita di una delle più grandi voci americane del Novecento, esattamente mezzo secolo dopo la pellicola Lady Sings the Blues – dal titolo dell’autobiografia della cantante – diretta dal canadese Sidney J. Furie e a suo tempo interpretata da Diana Ross. In un’ambientazione che fonde abilmente storia e fiction, Andra Day sa dare spessore drammatico alla figura della cantante rievocandone gli incubi del passato, di un’infanzia condita da violenze d’ogni genere e spingendosi persino a rievocarne la vocalità intensa e ricca di pathos, mentre a Trevante Rhodes tocca il compito di impersonare Jimmy Fletcher, ovvero «l’infiltrato» che aiutò inizialmente la Narcotici a precostituire le prove per arrestare la Holiday prima di diventarne amante e confidente. In una riuscita ricostruzione che, insieme con le vicende biografiche, non manca di rimarcare le assurde difficoltà di vita dei neri d’America, gli appassionati di musica afroamericana (ai quali non sfuggirà il passaggio inventato su un soggiorno romano dell’artista, che invece in Italia si esibì solo a Milano nel 1958) si imbatteranno in una galleria di nomi e volti «familiari», dallo spregiudicato impresario Joe Glaser – che si arricchì tanto sulle spalle di Billie Holiday, quanto su quelle di Louis Armstrong – al sassofonista Lester Young (l’attore Tyler James Williams, non sempre nel ruolo), che all’artista fu legato da un profondo rapporto spirituale: fu lui a ribattezzarla Lady Day, ricevendone in cambio l’appellativo di «Prez», ovvero il «presidente» di tutti i sassofonisti. E inevitabilmente la fa da padrona la musica, dove a parte i bracci di ferro sull’opportunità di cantare Strange Fruit – una cui esecuzione provocò persino un intervento della polizia – si ascoltano alcuni celebri cavalli di battaglia come ad esempio All of Me, Lover Man, God Bless the Child o I’m a Fool to Want You.
In un cast particolarmente affollato, Garrett Hedlund è il perfido Ansliger; Melvin Gregg è il trombettista Joe Guy, che della Holiday fu compagno di vita e di tossicodipendenze, mentre Rob Morgan è Louis McKay, il suo terzo e losco marito; Natasha Lyonne interpreta l’attrice Talullah Bankhead, la cui relazione amorosa con la cantante non fu mai del tutto provata; Leslie Jordan è il giornalista Reginald Lord Devine, personaggio frutto di invenzione. Quando Billie Holiday morì nel luglio del 1959 – esattamente quattro mesi dopo il suo adorato Lester Young – aveva solo 44 anni e il film la ritrae in ospedale con i piedi ammanettati al letto per volontà di Ansliger. Quattro anni prima, gli afroamericani avevano cominciato ad alzare la testa con Rosa Parks, mentre la tanto ostracizzata Strange Fruit avrebbe dovuto attendere qualche altro decennio prima di entrare nella Hall of Fame ed essere indicata come «canzone del XX Secolo». Nel frattempo, ancora oggi, nella civile e democratica America, molti neri continuano a morire senza un perché.