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L'intervista
Nicola Morisco
07 Febbraio 2021
Quattro ragazzi giocavano a calcio su una spiaggia di Gaza. Era il 2016. Si unisce a loro un giocatore invisibile, un drone militare dell’esercito di Israele. Con un tragico epilogo. Dopo il fortunato Tabib, cortometraggio sulla storia dell’ultimo pediatra di Aleppo, il regista barese Carlo D’Ursi, realizza Yalla (dall’arabo Yal-la, che tradotto significa «andiamo, correre») che riprende la terribile vicenda degli sfortunati ragazzi palestinesi. Il corto ha vinto da poco il premio «Forque», uno dei riconoscimenti più antichi e prestigiosi del panorama cinematografico spagnolo, come Miglior cortometraggio del 2021. Prodotto da D’Ursi e Borja Pena, il film è stato scritto insieme a Sergio Barrejón e ha come protagonisti i giovani attori: Javier Cordoba, Sofia Haouali, Ahmed Younoussi, Badar Bennaji e Mohamed Batan.
Yalla ha ottenuto il sostegno del Ministero dei Bene Culturali Spagnolo, Amnesty International e del programma Media dell’Unione Europea. D’Ursi, barese di nascita, vive da vent’anni in Spagna dove ha iniziato la sua carriera di produttore cinematografico con Pedro Almodóvar, per poi aprire una sua casa di produzione spagnola, la Potenza Producciones, che dal 2004 ha prodotto film che sono stati selezionati a Venezia, La Memoria del Agua per le Giornate degli autori, a Cannes, Montreal, Pusan e in tanti altri festival. Recentemente ha prodotto per Netflix Original Il Direttore capo, nel quale D’Ursi è anche attore principale. Mentre l’anno scorso, nonostante la pandemia, era nel cast della coproduzione italo-spagnola A Tor bella monaca non piove mai, di Marco Bocci e in Retrato de mujer blanca, accanto a Blanca Portillo, vincitrice a Cannes del premio come Miglior attrice per Volver di Almodovar.
D’Ursi, dopo la Siria, si è spostato sulla Striscia di Gaza anche qui per raccontare una storia vera. Qual è il suo pensiero in merito alle divisioni tra palestinesi e israeliani?
«L’opposizione alla violazione dei diritti dell’infanzia, sia essi vengano da Israele o dalla Palestina. Qualche anno fa, durante un viaggio in Israele, decidemmo di attraversare la frontiera per visitare Betlemme. Lì conobbi un ragazzo palestinese, il cui fratello di 12 anni era morto perché, giocando a calcio, il pallone era caduto dall’altra parte del fatidico muro. Era stato massacrato da un mitragliatore nemico, mentre tentava di recuperare il pallone. Come cineasta, il mio obiettivo con questo cortometraggio è diffondere un messaggio contro l’uso senza controllo dei droni militari, specialmente contro i civili, non di prendere una posizione a favore di un Paese».
Il cinema continua a interessarsi al conflitto Israele-Palestina. Secondo lei con quali risultati?
«È un tema che affascina molto il mondo del cinema perché, purtroppo, sembra un conflitto che non ha mai fine. Il Medio Oriente è la scacchiera in cui si combattono le guerre occidentali. I pezzi che cadono e le vittime civili di drone militari armati, sono in allarmante crescita. Yalla è una chiamata all’azione che, grazie al Premio Forque, ha acquisito rilevanza nazionale in Spagna. Il corto, inoltre, è diventato il protagonista della campagna contro l’uso di aerei militari non pilotati di Amnesty International, che sta ottenendo ottimi risultati in quanto alla sensibilizzazione e diffusione del messaggio».
Che futuro possiamo immaginare per i giovani dei due Paesi?
«Non è possibile immaginare un futuro per giovani che vivono in paesi in conflitto armato. È impossibile costruire un’identità e un’etica personale, se tutti i giorni devi negoziare la tua libertà con la guerra».
Intende girare un film in Italia, magari nella sua Puglia?
«I miei compagni delle medie mi richiedono insistentemente un “coming of age” della Bari degli Anni ‘90, ma in realtà in questo momento ho un progetto molto personale che potrei girare in Puglia. Molto nel nostro settore dipende dalle volontà istituzionali, so che Apulia Film Commission è molto attiva, forse i nostri cammini troveranno modo per incrociarsi nel futuro. Chissà».
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