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«Berlusconi top, un vero genio del calcio made in Italy»

 
Davide Lattanzi

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Davide Lattanzi

«Berlusconi top, un vero genio del calcio made in Italy»

Angelo Carbone

Il ricordo del barese Angelo Carbone che ha giocato nel suo Milan ed ora è dirigente rossonero

Lunedì 19 Giugno 2023, 13:11

BARI - «Un genio: il nostro Paese ha perso un uomo profondamente innamorato dell’Italia. Il calcio, invece, perde l’uomo che ne ha cambiato la concezione». Angelo Carbone si commuove nel ricordo di Silvio Berlusconi. Da Bari e dal Bari al Milan delle stelle: l’ex centrocampista biancorosso è stato tra i primi ad approdare alla corte del Cavaliere proprio negli anni della sua ascesa politica, nonché della sublimazione del progetto rossonero, con l’incetta di trofei internazionali. Al termine della settimana che si è aperta con la scomparsa dell’ex Premier più che mai impegnato nel calcio con il progetto Monza, ecco un ritratto a 360 gradi da chi lo ha conosciuto da una prospettiva privilegiata.
Angelo Carbone, come ha accolto la notizia della morte di Silvio Berlusconi?
«Con grande commozione, purtroppo da tempo le sue condizioni di salute erano piuttosto critiche. Eppure, aveva una forza vitale incredibile: sapeva reagire ad ogni avversità e soprattutto nell’ultimo periodo non erano state poche. È giusto che ognuno mantenga i suoi orientamenti politici, ma penso che su un aspetto non si possa che convenire: Silvio Berlusconi è stato un visionario, un innovatore, un uomo dagli straordinari orizzonti. Ha rivoluzionato il mondo dell’imprenditoria e il calcio, dal suo avvento, è cambiato per sempre».

Ricorda i suoi primi incontri con Berlusconi?
«Come potrei dimenticare? È stata una delle esperienze più singolari della mia vita. Avevo 22 anni, il Milan mi acquistò dopo due anni ad alto livello con il “mio” Bari. Alla firma del contratto, il presidente cominciò a chiedermi tutto di me: quale lavoro facessero i miei genitori, dove avessi studiato. A stento riuscivo a rispondere, ma il suo più grande pregio era sapersi porre con tutti con estrema capacità. Da un uomo del suo rango ti aspetti che se la “tiri”: invece lui parlava con tutti con una semplicità disarmante. Il potere, il peso politico possono averlo dipinto in modo diverso, ma era una persona divertente, spiritosa, generava buon umore in chi lo circondava. E soprattutto aveva una dote rara al mondo d’oggi: il suo rispetto per il lavoro era sacro. Quando si diceva che il Milan fosse una famiglia, era la pura verità: i suoi dipendenti, dal più alto in grado a chi svolgeva le mansioni più umili, erano trattati con estrema dignità e retribuiti con regolarità svizzera».
Che cosa lo ha reso unico nel calcio?
«Guardava anni avanti. C’era ancora la Coppa dei Campioni e lui ci diceva sempre che il nostro compito doveva essere di non mancare la qualificazione ad una competizione che sarebbe diventata la più remunerativa in assoluto. Nel 1992, ad un pranzo di squadra, affermo che un domani non lontano i grandi club avrebbero tentato di rendere la Champions pari all’Nba di basket: in pratica aveva previsto i tentativi di costruire la Superlega. Ah, e poi devo smentire un altro falso mito».
Quale?
«Del suo Milan si parlava sempre per i campioni olandesi o per Savicevic o Boban. Ma la verità è che quella squadra era un inno all’italianità. Lo zoccolo duro era in gran parte prodotto dal settore giovanile o pescato da club della zona: basti pensare a Franco Baresi, Maldini, Tassotti, Costacurta, Filippo Galli, Donadoni arrivato dall’Atalanta. Io stesso sono l’esempio di quanto guardasse con attenzione i ragazzi italiani emergenti. Il progetto Monza lo conferma: negli ultimi dialoghi che avevamo avuto mi chiedeva quali fossero i ragazzi da tenere d’occhio nel nostro settore giovanile, a patto che fossero italiani. Voleva costruire una squadra senza alcuno straniero e provare a contribuire al rilancio del nostro movimento in un frangente particolare».
Da calciatore la sua esperienza nel Milan è stata limitata: appena 30 presenze dal 1990 al ‘94, con due stagioni trascorse in prestito al Bari e al Napoli. Come mai è poi tornato nel club rossonero con un ruolo di spicco nel settore giovanile?
«Per il motivo che dicevo prima. Il Milan era un club in cui non si era un “numero”: i rapporti contavano davvero. Sono diventato molto amico di Pier Silvio Berlusconi, così come ho conservato gelosamente la stima del presidente e del dottor Galliani. Da loro ho appreso la passione per la ricerca dei calciatori, per curarne la crescita non soltanto sotto il profilo tecnico, ma anche educativo ed umano. Per costruire una carriera brillante, in fondo, la mentalità, le motivazioni e la cultura del lavoro sono componenti molto più importanti del talento. Perciò, una volta terminata la carriera agonistica dopo un lungo girovagare ed una stagione da direttore sportivo alla Pro Patria, entrai nello scouting del Milan progredendo anche con le gestioni successive fino a diventare responsabile del vivaio».

Ci sarà mai un nuovo Berlusconi nel calcio italiano?
«Innanzitutto, mi auguro che la sua famiglia possa proseguire la gestione del Monza che sta vivendo una favola straordinaria, dando un esempio di come si possano ottenere risultati perseguendo un ideale. Per il resto, purtroppo è finito il tempo dei grandi proprietari italiani: siamo nell’epoca dei fondi di investimento, il nostro calcio fa gola agli investitori stranieri perché le squadre conservano blasone e tradizione a costi notevolmente inferiori rispetto a quelli della Premier League. Trovare un altro Berlusconi forse sarà impossibile, ma vedo il suo esempio in diverse realtà: penso all’Atalanta, al Sassuolo, all’Udinese. Ovvero a club che valorizzano risorse interne quali i settori giovanili e lo scouting. A livello di prestigio, sebbene con un’impostazione differente, oggi l’imprenditoria italiana nel calcio ad alto livello è rappresentata soprattutto dalla famiglia De Laurentiis. E a tal proposito, lasciatemi un pensiero per il Bari».
Prego…
«Quando il club fallì nel 2018 ho pianto, ma era scontato che a breve i De Laurentiis lo avrebbero riportato in alto. Ebbene, domenica scorsa non ero in quel San Nicola meraviglioso e strapieno, ma davanti alla tv e… ho pianto di nuovo. Come può non essere in serie A una piazza del genere? Mi auguro con tutto il cuore che il tempo delle lacrime sia finito. Ora è arrivato il momento di rialzarsi dopo una batosta tremenda, sapendo che ripetere un campionato come l’ultimo non sarà semplice e quindi occorrerà attenzione capillare al dettaglio. Ma l’obiettivo deve essere la promozione: la città lo merita assolutamente».

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