L’hanno giustiziato perché si era fatto rimettere a nuovo la macelleria da un’impresa che lavorava sulla strada tra Ruvo del Monte e Calitri. Quell’impresa pagava già il «pizzo» al clan Delli Gatti che, a quel punto, ha dovuto garantire la protezione promessa. Uno sgarro. È per questo motivo che - secondo il killer pentito della mala del Vulture Alessandro D’Amato - Domenico Tita, macellaio di Ruvo del Monte, è stato condannato a morte nel 1991. Le dichiarazioni del pentito hanno riaperto l’inchiesta sull’omicidio di mafia avvenuto ad Atella il 26 febbraio del 1991.
Il caso era era rimasto insoluto. Mandanti ed esecutori non avevano nomi e volti. D’Amato ha fornito agli investigatori - non senza contraddizioni - dettagli che non sono difficili da riscontrare. Come il fatto che l’impresa che avrebbe pagato il pizzo al macellaio, in quel periodo, lavorava sulla strada tra Ruvo del Monte e Calitri.
Per i magistrati della Procura antimafia di Potenza non sarà difficile rintracciare i titolari dell’impresa, sempre che siano ancora in vita, a distanza di 21 anni dall’agguato.
Il movente - Il racconto del pentito è per sentito dire. I suoi interlocutori, secondo gli investigatori, sono altri appartenenti alla mala.
«Mi dissero - sostiene D’Amato - che era stato ucciso perché il macellaio incassò una sorta di tangente, ovvero si fece rinnovare completamente i locali della macelleria da un’impresa che lavorava sulla strada tra Ruvo e Calitri. Rocco Delli Gatti (detto «maroscia», è stato ucciso a colpi di kalashnikov a Melfi nell’ottobre del 2003, ndr) venne a sapere quello che aveva fatto il macellaio senza chiedere loro il permesso e allora decise che era il momento di dargli una lezione».
Killer e mandanti - Nel 1991 i basilischi non erano ancora una famiglia mafiosa e i clan Cassotta e Delli Gatti «erano - dice D’Amato - una cosa sola». Questo risulta anche agli investigatori.
La faida tra le due famiglie comincerà a pochi mesi dall’omicidio del macellaio, con la morte del primogenito dei Cassotta: Ofelio Antonio (trovato carbonizzato nella discarica di Rapolla). Segue una lunga e ininterrotta scia di sangue che si è chiusa nel 2008 con l’omicidio di Bruno Augusto Cassotta (assassinato a Rionero a colpi di 7,65). Ma chi uccise Domenico Tita?
Il mandante, secondo D’Amato, sarebbe stato proprio «Rocco Delli Gatti». Esecutori: «L’azione - dice il pentito - dovevano farla Massimo Aldo Cassotta e Angelo Nolè».
Sentito dire - Ma le notizie che D’Amato riporta agli investigatori non sono state apprese da una fonte diretta.
Chi gli raccontò di quel delitto? Dice il pentito: «Me lo dissero Tonino Cossidente (ex boss della mala a Potenza, da qualche tempo diventato collaboratore di giustizia, ndr) e Saverio Riviezzi (che per gli investigatori è un boss della famiglia dei basilischi, ndr)».
Contraddizione - E qui il racconto del pentito diventa contraddittorio. Dice: «I due mi dissero di averlo ucciso». Poco prima aveva detto che mandanti ed esecutori erano altri. Cosa vuole dire il pentito quando afferma: «I due mi dissero di averlo ucciso». Sbaglia? Oppure si tratta solo di un semplice - ma grave - errore di trascrizione?
L’inchiesta - Ora spetterà gli investigatori verificare se le dichiarazioni di D’Amato sono credibili.