BARI - Io sono un filo d’erba / un filo d’erba che tre- ma. / E la mia Patria è dove l’erba trema. / Un alito può trapiantare / il mio seme lontano». Quale struggente sentore di futuro in questi scarni versi e quante albe, quante, dentro l’imbrunire della civiltà contadina… Rocco Scotellaro è un messaggero dei tempi che tramontano e del doma- ni che arriva, è un corifeo del suo popolo, il nostro. Perciò l’anno scorso, per il ritorno della «Gazzetta» in edicola, fu spontaneo adottare in prima pagina un titolo del poeta luca- no: «Sempre nuova è l’alba».
Scotellaro ha appena trent’anni quando un infarto se lo porta via il 15 dicembre 1953 a Portici (Napoli), dove collaborava con l’Osservatorio di economia agraria diretto da Manlio Rossi-Doria. Lì concepisce la ricerca an- tropologica di Contadini del Sud, che, in stadio embrionale, sarebbe apparsa nei «Libri del Tempo» di Vito Laterza nel 1954.
La scomparsa prematura lo condanna allo status di fratello minore o di figlio adottivo del- la generazione dei Carlo Levi, Manlio Rossi-Doria, Adriano Olivetti, Rocco Mazzarone, Ernesto De Martino, Franco Fortini. Muore giovane chi è caro agli dei, recita l’adagio. Sarà, ma per noi Rocco è il fratello maggiore che, più o meno nei medesimi anni di Albert Camus, scopre il tormento dell’identità meridiana, mai compiuta eppure generosa: «Non siamo acini maturi, ma piccoli in un grappolo di uva puttanella». Rocco sa che «la bella patria» è nel contempo sia legame sia esilio rispetto alla terra natia, e che è più larga del- le radici e più forte del nazionalismo: «Un alito può trapiantare / il mio seme lontano». Rocco concepisce che la ricchezza può stare nel riuso, in una nuova sobrietà, nella prassi comunitaria: «Siamo entrati in giuoco anche noi / con i panni e le scarpe e le facce che avevamo». Se poi volete vedere la faccia che aveva lui, la ritrovate nel museo materano di Palazzo Lanfranchi: Scotellaro è fra i personaggi ritratti nel telero Lucania ‘61 di Carlo Levi, il quale ne restituisce l’aspetto arcaico e una paradossale modernità postuma. «Rosso di capelli», lo ricordava il grande giornalista Giovannino Russo, ex compagno di collegio a Potenza.
Nato nella Tricarico di cui sarebbe diventato sindaco socialista nel 1946 (il più giovane primo cittadino d’Italia nel dopoguerra), Scotellaro votò tutte le sue energie ai contadini in un passaggio cruciale: la Liberazione, le lotte per la riforma agraria, e, non da ultimo, la pubblicazione di Cristo s’è fermato a Eboli di Carlo Levi (Einaudi 1945). Quelle pagine furono folgoranti per il figlio del calzolaio del paese e di una sarta-scrivana, Francesca Armento, anche lei effigiata in Lucania ‘61. Nei quattro anni al Municipio il «sindaco discolo» o «Pelo rosso» - come lo chiamavano alla Rabata, l’ancestrale quartiere tricaricese - si spese per migliorare in concreto le condizioni di vita del paese e ispirò la sua azione a criteri che includevano «la ribellione e il perdono, la pace e il lavoro». Colpisce il «perdono» inserito nell’agenda politica locale: un tema della riflessione filosofica europea (Hannah Arendt), ben oltre l’amnistia togliattiana riservata agli ex fascisti.
Uno si distrae al bivio, s’intitola un altro suo libro, e in effetti Rocco Scotellaro appare talora come diviso fra l’etica dell’impegno e l’estetica della scrittura. Compone le poesie di È fatto giorno (Mondadori 1954), racconti, interventi, memoriali, sceneggiature, l’abbozzo del romanzo autobiografico L’uva puttanella Laterza 1955). Ma la sua breve e febbrile stagione è iscritta nell’Italia ibernata dalle ideologie della «guerra fredda». Difatti la critica marxista di Mario Alicata e compagni lo contrastò per gli stessi motivi che, molto dopo, avrebbero spinto lo storico delle tradizioni popolari Giovanni Battista Bronzini ad apparentare Scotellaro a Kafka: «C’è in comune l’assunzione, sul proprio non-essere, di tutto il negativo della civiltà». Del resto, già a metà anni ’50, Eugenio Montale e Geno Pampaloni riconobbero in Rocco un originale impasto di «popolare» e «internazionale», prossimo a Corrado Alvaro e a Cesare Pavese. Per non parlare di Pier Paolo Pasolini, il cantore – lucido nel rimpianto – del traumatico inurbamento di massa che stava desertificando il mondo agreste. Laddove in Scotellaro è ricorrente l’invettiva contro l’esodo dei quattro milioni di meridionali emigrati al Nord nel ventennio 1950-70.
«Venga il mattino per i giovani del 1953 / e sul- le bocche arse rispunti il sorriso», scrive poco prima di morire. Settant’anni dopo i suoi versi non hanno perso di vigore, anzi, restano «spiriti pellegrini della notte». Rocco e suoi fratelli, le ragazze e i ragazzi del Sud, da un pezzo hanno ricominciato a par- tire sebbene con il trolley al posto delle valigie di cartone. È giusto dunque ricordare Scotellaro senza nostalgia e ben oltre la tradizionale immagine del «santino proletario». E sarebbe importante riconoscergli un’indecisione – e diremmo quasi un’utopia – nel passo doppio d’una vita fra politica e letteratura: la prima amarissima fino all’onta del carcere subìto ingiustamente per le calunnie sull’attività di pubblico amministratore, la seconda celebrata solamente post mortem. Per non parlare dei dilemmi in amore, che trovano eco nelle liriche struggenti dedicategli dalla poetessa Amelia Rosselli, figlia dell’esule e martire antifascista Carlo Rosselli.
Questa lacerante «debolezza» è in realtà una forza in grado di proiettare Rocco fino a noi: polifonico nella scrittura, a caccia dei talenti, cioè delle voci del suo mondo, perché parimenti a caccia del proprio talento, di un’America interiore, di un’anelata lontananza non meno cogente dell’appartenenza meridionale.