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Una estate fa «Una ciofeca in mare regina di campagna»

Una estate fa «Una ciofeca in mare regina di campagna»

 
Una estate fa «Una ciofeca in mare regina di campagna»

Mercoledì 09 Luglio 2014, 09:53

03 Febbraio 2016, 05:17

di TIZIANA SCHIAVARELLI

Sono stata una bambina di campagna più che di mare. Entrambi i miei genitori non erano abili nuotatori, o meglio, non sapevano nuotare proprio. Mio padre, uomo della Murgia, mi raccontava di aver visto il mare per la prima volta a 14 anni e ne rimase intimorito… a vita. A volte accompagnava me e mia sorella al mare nelle vicinanze di Bari, legava una fune a uno scoglio e ci faceva sgambettare sempre aggrappate lì, mentre lui rimaneva vestito di tutto punto, seduto sullo scoglio, col piede ben saldo sul nodo per maggior sicurezza e ci guardava tutto contento, incitandoci a nuotare. Capirai che nuotate!

Però noi, in quello spazio striminzito in cui ci muovevamo, ci divertivamo un sacco e quando tornavamo a casa annotavamo tutte le nostre epiche avventure marine sul nostro diario. Quando veniva mamma al mare, si andava generalmente in spiaggia a Ginosa Marina così lei poteva stare a «sponzare» le gambe in acqua e noi sulla sabbia eravamo più libere di entrare e uscire dal mare, anche se mamma usava delle efficaci misure precauzionali per evitarci pericoli. Ci diceva: «Bambine, se vi allontanate nell’acqua morite!» oppure, se mangiavamo anche solo una pesca, non ci faceva più fare il bagno, sempre con lo stesso avvertimento: «Se entrate in acqua a “stomaco pieno” morite!».

Tant’è che ero sempre molto accorta e chiedevo continuamente consigli a mamma quando dovevo fare qualsiasi cosa: «Ma, se faccio un castello di sabbia muoio?» A questo punto devo pensare che se sono ancora viva, lo devo soprattutto al terrore di morte certa e istantanea che mi è stato trasmesso.

Solo che, col passare degli anni, non andavo più al mare con mamma e papà ma con gli amici e i miei amici amavano passare intere giornate a Polignano dove potevano fare tuffi mirabolanti da scogli altissimi ed io rimanevo a guardarli, «accipinata» su uno scoglio, sotto al sole cocente a sudare come una povera sventurata. Solo dopo varie estati passate così, capìi che se mi fossi attrezzata con un salvagente forse la mia vita avrebbe avuto una svolta. E così fu, finalmente potevo calarmi nelle acque alte e sentirmi al pari degli altri abili nuotatori. Solo all’età di 26 anni ho imparato a mantenermi a galla senza salvagente ma ancora oggi in acqua sono sempre una ciofeca.

Ma sì, perché infondo sono stata una ragazza di campagna. I ricordi delle vacanze più belle le ho a Santeramo dove avevamo una villa in Contrada Iazzitello. Ho ancora nelle orecchie l’assordante ma rasserenante suono delle cicale che durava fino a che non diventava buio. Ricordo che la sera andavamo a prendere il latte in una masseria poco distante da casa e durante il tragitto, guardavamo il cielo stellato e papà ci faceva conoscere le varie costellazioni. Quanto mi affascinava! Tornati a casa, mamma bolliva il latte. Una volta raffreddato, si formava sopra uno strato di panna che spalmavamo sul pane con un pizzico di zucchero: una colazione a dir poco «principesca».

Avevamo tanti amichetti con cui facevamo gare di velocità in bicicletta a cui seguivano rovinose cadute con relative sbucciature di ginocchia e braccia. Eravamo almeno una ventina di ragazzini in bici. A Santeramo ci chiamavano «i biciclisti». A volte ci avventuravamo nei sentieri di campagna sentendoci degli esploratori che stavano scoprendo luoghi mai calpestati da piede umano e l’esaltazione massima giungeva quando trovavamo pietre un po’ v i t re e (molto comuni sulla Murgia) che ci sembravano diamanti. Un giorno ci incamminammo in paese avvolti nelle lenzuola con le facce truccate metà di bianco e metà nero, convinti di proporre un happening di teatro sperimentale alla cittadinanza. Devo dire che riuscimmo a destare subito molta curiosità, si creò una folla intorno a noi, chi rideva, chi ci tirava oggetti di ogni tipo appresso, alla fine arrivarono i vigili urbani e ci cacciarono in malo modo: «Me’ lavateve la faccie, allevateve chidde pezze da ‘nguedde e sciatavinne a case!» (traduzione: lavatevi la faccia, toglietevi quegli stracci d’addosso e tornatevene a casa).

E poi… tante serate passate a mettere dischi nel juke-box del bar, i corteggiamenti dei ragazzi di Santeramo, non foss’altro perché ero forestiera, ero «la barese»… i primi baci, i giri in moto… Nelle mie estati, non c’è stato mai il tempo per dire «Uffa!» e ho avuto sempre un’enciclopedia di avventure da raccontare l’inverno ai miei compagni di scuola.
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