Approderà in appello il prossimo 19 settembre il processo in abbreviato sul presunto narcotraffico dalla Spagna a Bari. Tra i 22 imputati c’è il 57enne Alceste Giancarlo Cavallari, detto «Gianky», figlio dell’ex re Mida della sanità privata pugliese Cicci Cavallari, condannato in primo grado a 12 anni di reclusione, in continuazione con una precedente condanna sempre per droga. L’accusa per lui è di aver fatto parte di una associazione per delinquere, capeggiata dal boss di Noicattaro Giuseppe Annoscia, l’ex sanguinario di Poggiallegro, affiliato al clan Parisi di Japigia (ha trascorso in cella quasi 27 anni per 11 omicidi risalenti agli anni), e dal pregiudicato di Altamura Vito Facendola (entrambi condannati a 20 anni di reclusione), ritenuta la cellula operativa dell’importazione di decine di chili di sostanze stupefacenti dall’estero.
In Spagna, in particolare in Andalusia, a tenere i rapporti con i narcos - secondo l’accusa - sarebbe stato proprio Cavallari, il quale già nell’interrogatorio di garanzia dopo l’arresto di giugno 2023, aveva ammesso quasi tutte le accuse: nove episodi di detenzione ai fini di spaccio di droga da febbraio a maggio 2022. «La contestazione elevata a Cavallari non ha mai contemplato cocaina ma rimprovera allo stesso di aver fornito in alcune occasioni droga leggera a soggetti di Altamura» precisa l’avvocato Valeria Volpicella. «Fatti - ricorda la legale - che Cavallari ha confessato già in sede di interrogatorio, facendo ammenda, anche a fronte di piattaforme probatorie lacunose». Non solo. La difesa evidenzia che la mancata contestazione dell’aggravante mafiosa al 57enne, a differenza di altri coimputati nello stesso processo, dimostra che Cavallari «non è mai entrato in contatto con clan mafiosi. La partecipazione all’associazione è stata fermamente contestata da questa difesa nei motivi di appello, non essendo le condotte di Cavallari caratterizzate da stabilità ed avendo lo stesso interagito sempre solo con un soggetto (peraltro non di vertice) e mai con un gruppo organizzato».
Nell’atto di appello, infatti, la difesa di Gianky Cavallari non impugna la condanna per i singoli episodi di detenzione e spaccio di marijuana e hashish (ammessi dall’imputato), ma contesta la ritenuta partecipazione all’associazione per delinquere. «Nessuna conversazione, o evocata situazione, che riguardi o richiami, un rapporto di conoscenza tra Cavallari e i membri del sodalizio viene efficacemente valorizzata» evidenzia la difesa, spiegando che «non si sia instaurato alcun contatto tra Cavallari e Facendola (uno dei vertici del gruppi criminale, ndr)». Il rapporto «si è limitato agli specifici episodi di fornitura, senza alcuna condivisione di strategie, mezzi, guadagni, utili, modalità operative che includessero soggetti diversi» dall’unico contatto di Cavallari con i narcos baresi, Giuseppe Calia (co-imputato e condannato in primo grado a 13 anni e 8 mesi di reclusione). Tanto è vero, che una volta interrottisi i rapporti con quest’ultimo, «nessun soggetto intraneo all’associazione (men che meno Facendola) chiede a Cavallari rifornimenti di stupefacente, né questi cerca o contatta taluno dei soggetti associati: questa - secondo la difesa - è la dimostrazione inequivocabile che Cavallari avesse un rapporto esclusivo col solo Calia, interrotto il quale sparisce dal radar investigativo». In ogni caso, conclude «potrà al più essere ritenuto un fornitore occasionale o estemporaneo» di droga, «non certo sistematico o stabile».