BARI - Ergastolo con isolamento diurno. È la richiesta di condanna fatta dal pm della Dda di Bari Federico Perrone Capano al termine della requisitoria dinanzi alla Corte d’Assise per i pregiudicati Maurizio Larizzi, 40enne detto «u’ guf», e Domenico Monti, 65enne detto «Mimmo u’ biund», imputati per l’omicidio volontario pluriaggravato (dalla premeditazione, dal metodo e dalle finalità mafiose) di Domenico Capriati.
Il 49enne nipote del capo clan di Bari Vecchia Tonino e fratello di Lello Capriati (ucciso lo scorso 1 aprile a Torre a Mare), fu ammazzato la sera del 21 novembre 2018 (morì nella notte in ospedale) nel cortile della sua abitazione in via Archimede, nel quartiere Japigia, dai colpi esplosi da due armi, una mitraglietta calibro 7.65 e una pistola 9.21 (il secondo sicario non è mai stato identificato).
Stando alla ricostruzione accusatoria, Larizzi sarebbe stato il mandante istigatore del delitto, maturato nell’ambito della gestione dei traffici illeciti, e Monti uno degli esecutori materiali. Nella lunga requisitoria, il pm ha ripercorso l’intera vicenda, contestualizzando i fatti all’indomani della guerra di mafia di Japigia della primavera 2017 (Capriati era stato scarcerato dopo oltre 13 anni di cella a luglio 2017) e ricostruendo i motivi di rancore con Larizzi.
Secondo la Dda quello di Mimmo Capriati fu un omicidio pianificato e volutamente commesso nel quartiere Japigia, roccaforte dei clan mafiosi Parisi e Palermiti, per allontanare i sospetti da Bari Vecchia. A condurre gli inquirenti alla soluzione del delitto, identificando i responsabili in Larizzi e Monti, sono stati una seria di indizi, a partire dalle intercettazioni e dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. I killer, secondo l’accusa, eseguirono l’agguato in tre minuti, per poi fuggire dal cancelletto posteriore del condominio dove abitava la vittima. Un cancello - ha evidenziato il pm - di solito chiuso con un lucchetto e invece quella sera stranamente aperto (forse con la complicità di qualche condomino). Il magistrato ha più volte sottolineato il clima omertoso attorno alla vicenda. L’omertà dei parenti della vittima, vicini agli ambienti criminali, ma anche dei cittadini, forse animati dalla paura: 18 nuclei familiari abitavano in quel condominio ma nessuno, alle 21 di sera, è stato in grado di fornire dettagli di quell’agguato fatto in modo tanto plateale. Quindi l’analisi del movente: il tentativo di Capriati, dall’indole «violenta e prevaricatrice» ha detto il pm, di riconquistare, dopo la scarcerazione, il controllo dei traffici illeciti, durante la sua detenzione conquistati da Larizzi, che «aveva fatto affari con il nome mio» diceva Capriati (stando a quanto riferito dai «pentiti»).
Il pm Perrone Capano ha ricordato anche i dettagli descritti nei disegni fatti a mano da colui che avrebbe dovuto garantire la scorta armata a Capriati, Giovanni Pace, che ritraevano la scena del crimine, la posizione dei sicari e della vittima, il momento dell’esecuzione con il colpo di grazia, l’arrivo della Polizia.
Una lunga analisi, quella fornita dalla Procura, sfociata nella convinzione della responsabilità dei due imputati nel delitto. Nella prossima udienza del 19 settembre la parola passerà alle difese (gli avvocati Raffaele Quarta e Carlo Russo Frattasi) e il 27 settembre è fissata l’udienza per repliche e sentenza.