BARI - Scrivo queste righe dalla sala di attesa del pronto soccorso del Policlinico, non dalla hall di un albergo vacanze. Sono le 18.00 del 16 agosto e mia madre prossima agli 85 anni è entrata in sala rossa/gialla poco dopo le 13.30, un’ora dopo il «parcheggio» su una barella del 118 nell’anticamera del pronto soccorso e dopo aver atteso 55 minuti l’arrivo dell’ambulanza.
Un calvario iniziato alle 10.45, quando mia sorella ha chiamato il 118 dopo aver ritrovato in bagno il corpo di nostra madre faccia in giù, al limite delle forze, e con il volto semitumefatto per il trauma di una caduta per una causa sconosciuta avvenuta nella notte.
Prima di chiamare il 118, ci siamo chiesti se la situazione potesse essere gestita in autonomia, ma in un quadro così critico, abbiamo deciso di chiamare l’ambulanza.
Io, a distanza, ho invitato alla calma mia sorella cui ho trasferito alcune informazioni/suggerimenti su cosa fare, che probabilmente avrebbe dovuto fare qualcun altro.
Tutti siamo consapevoli che in questi casi ogni minuto sembra un’ora, ma dopo il primo quarto d’ora di attesa l’ansia è cresciuta anche perché nostra madre era immobile sul pavimento, rispondeva a malapena con voce flebile, aveva freddo e brividi.
Mia sorella era sola, io mio fratello eravamo temporaneamente fuori Bari e, mentre rientravamo in città, ci siamo preoccupati di far monitorare i parametri vitali in attesa dell’arrivo dell’ambulanza.
Alle 11.20 (a 35 minuti dalla telefonata al 118), l’ambulanza non era ancora arrivata: ho informato i Carabinieri (il 112) e la sala operativa ha girato la telefonata al 118.
L’operatrice mi ha detto che le ambulanze erano impegnate e, a questo punto, ho chiesto se a Bari fosse accaduto qualcosa di così grave che potesse giustificare l’indisponibilità di un’ambulanza. «La sua chiamata è in attesa» il senso della la risposta dell’operatrice probabilmente sotto stress per le molte chiamate utili e soprattutto inutili (sfogo che si ritorce sulla povera gente che chiede aiuto non un posto ombrellone in spiaggia). Alle mie insistenze la chiamata si è «interrotta»
L’ambulanza è arrivata alle 11.40, dunque 55 minuti dopo. Inutile prendersela con infermieri o i soccorritori, loro sono il front office o la valvola di sfogo, di un sistema fragile che paga le inefficienze di una filiera che parte dal territorio (che dovrebbe o potrebbe soddisfare buona parte della domanda di salute) e finisce agli ospedali, dove i pronto soccorso diventano il punto di riferimento, dall’unghia incarnita fino all’infarto.
Ma oggi mi chiedo se nella città metropolitana di Bari che ha (o dovrebbe avere) 11 postazioni di 118 attive, sia normale attendere 55 minuti l’arrivo dell’ambulanza.
Ma il cerchio di tutto questo si chiude con un altro paradosso: l’ambulanza del 118 che ha soccorso mia madre (codice giallo) è rimasta bloccata al pronto soccorso oltre un’ora perché - per prassi - fino a quando non viene fatto il triage, la paziente resta ancora «in carico» al 118.
E in tutto questo c’è un lato umano racchiuso nell’immagine di una donna seduta sulla sedia a rotelle in attesa di essere visitata. Non ha la fortuna di avere un figlio accanto: è sola e disperata. Prende il suo telefono e compone il numero di qualcuno che conosce: «Non ho nessuno, aiutami…».