BARI - Il Covid ha accelerato i divorzi. E non solo quelli tra coppie logore che, obbligate alla condivisione forzata di spazi e tempi si sono infine, giustamente, mandate a quelpaese. Ben più grave è la distanza scavata dall’emergenza tra avvocatura e magistratura.
Da ieri i penalisti baresi sono in stato di agitazione. In un documento congiunto e durissimo le Camere penali del distretto di Corte d’Appello (Bari, Trani e Foggia) hanno «il loro forte dissenso rispetto ad una decisione sintomatica di arretratezza culturale e distonica rispetto ai rapporti da sempre improntati» al dialogo e al confronto tra magistrati e avvocati del distretto. La pietra dello scandalo è il cosiddetto «diritto di tribuna», quella consuetudine che vuole gli avvocati assistere (senza potere di giudizio) alle riunioni del Consiglio giudiziario dedicate «alle valutazioni di professionalità e alla progressione economica dei magistrati». Il Consiglio giudiziario viceversa ha deciso a maggioranza di escludere da tali incontri i membri cosiddetti «laici», tre avvocati e un docente universitario.
Penalisti dunque inferociti. Respingono al mittente una scelta ispirata «dall’idea di un’Avvocatura ritenuta quale soggetto estraneo ad una Giurisdizione a gestione domestica. La decisione di estromettere la voce del Foro e dell’Accademia dal dibattito sulla valutazione di professionalità dei magistrati significa volere allontanare la collettività dalla Giurisdizione». Questa l’accusa contenuta nel documento congiunto delle Camere penali del distretto.
I magistrati, tuttavia, non recedono di un passo. È la giunta distrettuale dell’Anm a replicare e a rincarare la dose: «La funzione giudiziaria è un bene che va preservato fino in fondo nelle situazioni che possono rivelarsi rischiose per il suo regolare ed imparziale andamento, dal momento che essa rappresenta il nucleo fondante della tenuta di una democrazia». L’abolizione del diritto di tribuna, secondo la magistratura associata risponde a una logica ben chiara: «Le valutazioni dei magistrati sono affidate anche agli avvocati in seno al Csm» ma «per tali componenti, durante lo svolgimento pluriennale di tali delicate funzioni, vige il divieto assoluto di esercizio della libera professione». Quindi, se gli avvocati continuassero a partecipare alle sedute sulle valutazioni dei magistrati si assisterebbe «senza adeguate garanzie, all’immagazzinamento silente di una massa di informazioni delicate e sensibili ad opera di singoli avvocati quotidianamente impegnati nelle attività professionali dinanzi ai magistrati giudicati».
Una questione di opportunità. Di fiducia? Di buon gusto? Hanno ragione i giudici a voler parlare dei fatti loro tra loro? O hanno ragione gli avvocati a voler continuare a condividere il terreno del confronto tra attori della Giustizia.
Ma torniamo al «divorzio». E all’emergenza sanitaria che ha acuito i conflitti. Le scintille tra magistratura e avvocatura sono difatti cominciate quando i numerosi palazzi che ospitano gli uffici giudiziari baresi (lo sparpagliamento delle sedi è una delle più bizzarre peculiarità del distretto), hanno dovuto adeguarsi alle norme anti contagio. Con la conseguente restrizione degli accessi a tutti quelli che non fossero magistrati, personale amministrativo e forze dell’ordine. Gli avvocati, all’improvviso, sono stati trattati come il cosiddetto «pubblico»: vieni ma solo se hai udienza o solo per appuntamento o solo se hai un motivo concreto. Circostanza che ha mandato in bestia i legali: i luoghi della giustizia non sono un territorio privato, una riserva, un circolo esclusivo. Sono di chi li abita, di tutti gli operatori della giustizia e dei cittadini che - anche attraverso gli avvocati - esercitano i loro diritti.
Le ostilità tra magistratura e avvocatura erano cominciate tra l’altro, già durante il lockdown, con l’indicazione ministeriale alla celebrazione dei processi per via telematica. Tutti da anni invocano una giustizia molto più digitale della nostra, tuttavia l’idea che un avvocato non possa nemmeno sedersi accanto al suo cliente durante un interrogatorio, rende non solo questa giustizia priva di umanità e di sentimenti, ma perfino vagamente intimidatoria. Orwelliana? Non esageriamo.
Rimane il tema della distanza. Che a Bari, come già detto, è anche la metafora della difficoltà complessiva patita dalla macchina giudiziaria, per via delle numerose sedi (a proposito: ma è vero che lo stato di salute del palazzo di piazza De Nicola è prossimo al collasso?). Il dialogo tra operatori della giustizia si riverbera sulla vita dell’uomocomune. Quel divorzio è un male per tutti noi.