BARI - «Mio padre aveva quasi completamente pagato il suo conto alla giustizia. Tempo un anno e mezzo, calcolando le possibili riduzioni derivanti dalla buona condotta ma soprattutto dall’aggravamento delle sue malattie, probabilmente sarebbe uscito dal carcere e avrei potuto riabbracciarlo. È malato da molto, molto tempo. Sono rimasto da solo a prendermi cura di lui. Ho chiesto due volte negli ultimi mesi, considerato il rapido aggravamento delle sue condizioni, soprattutto a causa dell’Alzheimer e poi in seguito ad un intervento di ernioplastica alla colonna vertebrale, che gli venisse concessa la detenzione domiciliare a casa mia. Ma nessuna delle istanze è stata accolta. Venerdì 16 sono andato in carcere per il colloquio ma mi hanno detto che non era possibile vederlo e parlargli perché non si sentiva bene. Il giorno dopo mi hanno telefonata dicendomi che le sue condizioni si erano aggravate e che era stato ricoverato in coma al Policlinico. È stato un colpo al cuore. Ora è in Rianimazione, gli hanno messo un tubicino nella gola per farlo respirare. Mi hanno detto che è immobile, quasi fosse un vegetale. Ho paura che non lo vedrò più».
Paolo, 45 anni, non riesce a darsi pace. È il figlio di Francesco Abbrescia, 66 anni, un nome un tempo legato agli ambienti della malavita, considerato vicino al gruppo Fiore. Sta scontando una condanna a 12 anni carcere emessa del Tribunale di Brindisi per reati di droga.
«Ha trascorso quasi metà della sua esistenza in carcere mio padre - spiega il figlio - ma non è mai stato un mafioso. Era cambiato, era un uomo solo e malato, due semi paresi facciali quasi gli impedivano di parlare. Aveva perso la lucidità e anche i colloqui in carcere o quelli in in videoconferenza erano diventati un supplizio. Sperava di di poter tornare a casa. Io lo avrei aiutato a curarsi».
Dopo aver saputo del coma, Paolo Abbrescia si è presentato nell’ufficio denunce della Questura ed ha depositato una denuncia/querela di tre pagine più 10 pagine di allegato in cui ricostruisce la «storia clinica» del genitore, la tempistica e le ragioni delle istanze con le quali, nonostante non il genitore non avesse raggiunto complessivamente la pena per la concessione del beneficio della detenzione domiciliare, ne chiedeva comunque il riconoscimento in quanto il suo stato di salute avrebbe potuto essere incompatibile «con il regime inframurario in carcere».
«Dopo tanti anni che cercavo di portarlo a casa, per le sue malattie che non possono essere guarite ora è in coma. Diabete ad uno stadio molto avanzato, Alzheimer, calcoli renali, ernie. Soffriva. Ritengo ingiusto che sia rimasto in carcere nonostante il suo stato. Non era più lucido al punto che sono stato io a firmare per lui l’autorizzazione ultima perché venisse sottoposto ad un intervento alla colonna vertebrale. Le ultime richieste per i domiciliari le abbiamo presentate quando abbiamo capito che la sua salute stava precipitando ossia il 5 maggio e poi il 19 settembre. Sono state entrambe rigettate. Non ce l’ho con i giudici, e neppure con i medici ma temo che qualche cosa non abbia funzionato nello scambio di informazioni sul suo stato di salute».