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Bari, parla l'esperto: «Il virus non è mutato meglio per il vaccino»

 
Marisa Ingrosso

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Marisa Ingrosso

Il professor Graziano Pesole

Il professor Graziano Pesole

Pesole: alla ricerca servono più dati e omogenei. Il Cnr Ibiom di Bari studia 1.100 genomi sars-cov-2

Mercoledì 15 Aprile 2020, 15:31

BARI - «Il virus è lo stesso in tutta Italia, in Europa e Usa, non è mutato rispetto al ceppo cinese». A questa conclusione è giunto lo studio dell’Istituto di biomembrane, bioenergetica e biotecnologie molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibiom) di Bari insieme a Università di Bari e Statale di Milano. Pubblicata sulla rivista americana «bioRxiv», la ricerca ha confrontato 1.100 genomi virali di Sars-Cov-2 ed è stata realizzata con il supporto della piattaforma bioinformatica Elixir del nodo italiano dell’infrastruttura di ricerca europea per le scienze della vita, coordinata da Graziano Pesole, direttore Cnr-Ibiom e ordinario di Biologia molecolare dell’Ateneo barese.

Prof. Pesole avete applicato la bioinformatica al virus Sars-Cov-2?
«Sì, a oltre 1.100 genomi di soggetti infetti di ogni parte del mondo, tutti quelli disponibili. Perché i genomi virali cambiano rapidamente, si evolvono. E questa evoluzione può essere o di tipo neutrale (cambiamenti che non influiscono sulle caratteristiche del virus) oppure di tipo adattativo, cioè le proprietà del virus si modificano e il virus può, ad esempio, diventare più virulento. Se queste caratteristiche cambiano, quindi, non è detto che un vaccino sviluppato per una versione precedente del virus sia ancora efficace per una versione diciamo “evoluta”. Quindi noi, analizzando questi genomi (con algoritmi bioinformatici che ci permettono di differenziare l’evoluzione adattativa da quella neutrale), abbiamo verificato che tutti i ceppi virali disponibili non presentano evidenza di evoluzione adattativa. Sono geneticamente omogenei».

Sta dicendo che il virus che è in Cina è lo stesso che è in Italia?
«Esattamente quello che abbiamo in Europa e negli Usa. Quindi le strategie che si sono messe in campo in Cina dovrebbero funzionare anche qui».

Quindi il virus in Lombardia non è più ferale di quello attivo al Sud?
«Il virus è geneticamente uguale. C’è un altro discorso un po’ più complesso, che però è ancora in fase di studio, secondo cui la maggiore mortalità dipende dal denominatore, giacché il virus è lo stesso. Cioè la mortalità si calcola facendo numero di morti fratto numeri di infetti. Se sottostimo il numero degli infetti, il rapporto è maggiore. Questa è una spiegazione ma ve ne sono altre. L’attività di un virus dipende dalle sue proprietà e dalle caratteristiche dell’ospite, in questo caso l’uomo che viene infettato. Quindi c’è una teoria che però appare abbastanza solida, secondo cui in aree più inquinate, dove c’è più particolato molto fine (il Pm2.5), viene sovraespresso l’Ace2 che è una proteina che è anche la porta di accesso di questo virus. Un’azione protettiva contro l’inquinamento potrebbe aver creato una maggiore accessibilità al patogeno. Però sono dati su cui stiamo lavorando. Ora abbiamo un progetto col Policlinico di Bari, Istituto zooprofilattico di Puglia e Basilicata, insieme con lo Spallanzani, per approfondire questi aspetti».

Come farete? I dati in Italia sono un disastro. Sui tamponi danno un numero che include tutto, pure tamponi di controllo e post-mortem.
«In termini generali, la cosa importante è condividere i dati il più possibile, purtroppo in Italia non abbiamo questa cultura della condivisione dei dati e dei dati che seguano gli standard internazionali in modo da essere confrontati. Questo potrebbe essere un ostacolo al rapido progresso delle attività di ricerca. I clinici delle varie regioni dovrebbero sforzarsi di condividere questi dati secondo standard comuni e questo è il problema. Pensi che l’Italia ha prodotto una trentina di genomi virali, l’Islanda 400, il Lussemburgo 63, la Spagna 103. Noi ne abbiamo fatti quanto la Repubblica popolare del Congo».

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