Storie di ordinaria lotta al coronavirus, con viaggio all’interno del girone dantesco di chi si sottopone al tampone, tra procedure incomplete e assistenza ai possibili malati Covid-19 tutta da cifrare. Nei giorni scorsi una coppia barese, Nicola e Anna (nomi di fantasia per una storia reale) sono in apprensione per i rischi del contagio: Nicola ha avuto contatti con un collega positivo a fine febbraio e la moglie da sabato 14 marzo ha febbre (37-38°).
Questo il racconto alla Gazzetta. Nicola: «Sono stato alcuni giorni in quarantena volontaria e mi sono posto il problema di un eventuale contagio per i miei familiari, pur da possibile asintomatico. Il medico curante mi ha detto di monitorare la situazione, chiamando il numero verde regionale: il call center ha aperto la pratica su di noi». Poi la persistenza della febbre per Anna cambia tutto: «Dopo cinque giorni di febbre abbiamo contattato il 118 che è venuto a prendere mia moglie scandinava - aggiunge - dopo esplicita segnalazione di febbre da possibile Coronavirus. Gli operatori del servizio medico erano bardati con le tute: per ragioni di sicurezza si sono sincerati che Anna potesse scendere autonomamente evitando rischi con l’accesso in ambienti che potevano essere contaminati». Poi il trasferimento al Policlinico e l’ingresso in un «limbo» indefinito. Qui la descrizione è di Anna: «Sono arrivata alle 13,30 al Policlinico e sono passata da un nuovo doppio triage tra ambulanza e pronto soccorso. Mi hanno poi fatta sedere su una sedia, sola, in una sala di Asclepios una volta di radiologia, dove erano allocati, “temporaneamente” mi hanno detto, i potenziali Covid-19. Bene qui sono stata dalle 13,40 alle 22,30, salvo le visite degli infermieri per i prelievi, per l’eco al torace e il tampone, tutto a distanza di un’ora o due ore».
«Sono stata - aggiunge - sostanzialmente abbandonata senza possibilità di entrare e uscire nonché di rifocillarmi con acqua o alimenti, nessuna premura. Il bagno? Ho scoperto che c’era un wc in comune nel corridoio. Ma non a rischio contagio? Nella stanza vicino alla mia poltroncina c’era anche un secchio con siringhe usate alla portata di tutti, con la scritta potenziale infetto…». A fine serata il colpo di scena: «Alle 22,30, dopo nove ore, un medico mi ha detto che il mio esame non era rientrato tra i tamponi già analizzati e potevo scegliere tra attendere lì i risultati nella stessa stanza, su una sedia, o tornare a casa». E qui c’è un bug (un errore nel sistema, si direbbe in informatica): come si sposta un potenziale Covid senza auto? Il marito era in potenziale quarantena, restano i mezzi pubblici o il taxi (ma il servizio è quasi impossibile da recuperare per i timori degli autisti). O una ambulanza in fitto per il trasferimento. Anna si domanda: «Non c’era un letto per me. E se fossi stata una anziana? Sono tornata a casa a piedi, da sola. Possibile che non ci sia una modalità di gestione protocollata di un potenziale malato che ha fatto il tampone?». Infine l’attesa del responso: «Sul referto - chiarisce Anna - c’è scritto “sarà contatta se il test è positivo”. Non ho avuto notizie sulla tempistica dell’esame. Dopo ventiquattr’ore, per superare l’ansia e sapere se ero infetta o meno, ho chiamato il Pronto soccorso s e ho ottenuto il responso. Come mi è stato trasmesso? Per telefono…». Da qui la richiesta di Nicola e Anna: «Il possibile contagiato resta in uno spazio indefinito, senza normative che possano delimitare i suoi spostamenti o i suoi contatti. La quarantena di 14 giorni è un suggerimento o un invito. Chi combatte questa emergenza deve provare a porre rimedio alle défaillance che sono emerse dalla nostra esperienza», conclude la coppia.