La chiave di tutto è il senso di appartenenza. Lo stesso che accomuna i carabinieri di ieri e di oggi, rimasto immutato nel tempo e che crea l’istituzione. L’ufficio del comandante provinciale dei Carabinieri, il colonnello Fabio Cairo, è la cabina di regia del sistema sicurezza dell’Arma sul territorio. Fotografie, bandiere, pratiche e carte. Tante carte, da leggere, firmare, valutare. Perché, nonostante la modernizzazione, l’istituzione vive di informazioni e ha bisogno di un flusso continuo di notizie per calibrare la sua attività. La tradizione e il buon senso, da sole, non servono a sconfiggere i cattivi. C’è bisogno di competenze specifiche, preparazione e specializzazione.
Un bilancio di questo suo primo anno di lavoro?
«Positivo, sia sotto l’aspetto repressivo che sotto quello preventivo, come dimostrano i dati relativi al numero di reati commessi, in calo. Ma il lavoro più gratificante è quello nel settore della diffusione della cultura della legalità. Abbiamo realizzato e continueremo a realizzare iniziative mirate nelle scuole di alcuni quartieri particolarmente difficili della città. Vogliamo continuare ad essere professori di legalità sul territorio».
Le classifiche nazionali ci spingono in basso per quanto riguarda la qualità della vita. Qual è la sua valutazione?
«Non ritengo sia esattamente così. Innanzitutto bisogna contestualizzare queste classifiche perché oggi - lo ripeto - i reati predatori, quelli che incidono sulla percezione della sicurezza dei cittadini, sono in calo. Lo stesso sindaco ha ammesso che si vive bene e meglio».
Bari è una città pericolosa?
«Ha problemi come tutte le grandi città. In alcuni quartieri le criticità si vivono in modo più pressante per la presenza della criminalità. A Japigia, recentemente, siamo intervenuti in maniera efficace per ribadire la presenza dello Stato. C’era chi, addirittura utilizzando una ruspa per demolire le case del clan rivale e allontanare gli avversari dal quartiere, pensava di ristabilire nuove gerarchie criminali».
La percezione della sicurezza, sempre più spesso, non corrisponde ai dati ufficiali sui reati commessi. Come mai?
«La città si percepisce meno sicura perché si notano di più i comportamenti meno rispettosi delle regole. Penso alla maleducazione e all’arroganza che rispecchiano una parte dell’anima del capoluogo».
Sguardo fiero e sorriso cordiale. I carabinieri del Terzo millennio sono ancora così?
«I valori sono sempre quelli di una volta. Cambiano gli strumenti, ma il carabiniere continua ad essere tra la gente. Penso, ad esempio, al lavoro di recupero delle piazze principali, in sinergia col Comune. Il lavoro di squadra rappresenta la carta vincente: una illuminazione più efficace si traduce anche in una maggior sicurezza».
La sicurezza partecipata è un concetto ancora valido? I cittadini possono diventare le vostre sentinelle. Ma alla fine, quanto collaborano quotidianamente?
«La sicurezza è un bene che deve garantire lo Stato, ma al quale devono contribuire tutti, cittadini, associazioni, istituzioni, secondo le proprie competenze. Insomma, nulla viene calato dall’alto. Questo significa non voltarsi dall’altra parte»,
Oggi il cittadino vuole vedere più forze dell’ordine in giro, le vuole più efficienti, le vuole sentire più vicine e amiche. Controllo e presenza del territorio: come siete organizzati?
«Con le altre forze di polizia abbiamo diviso le zone di competenze in modo da avere un controllo più capillare ed evitare sovrapposizioni. Studiamo orari, abitudini e modalità dei reati commessi per adattare il complesso apparato della prevenzione. Non è un caso se gli assalti ai bancomat siano quasi scomparsi, come le rapine ai furgoni portavalori e alle farmacie. Riceviamo in un mese 30mila chiamate telefoniche: i cittadini sanno che, nel momento del bisogno, ci sono dei punti di riferimento. Di recente abbiamo sgominato una “batteria” specializzata nei furti in appartamento. I ladri seguivano le vittime, fotografano le chiavi degli appartamenti approfittando di un momento di distrazione e le riproducevano elettronicamente. La tecnologia però si è rivelata un boomerang: da un’immagine recuperata di una mano che mostrava la refurtiva, siamo riusciti a ricostruire le impronte digitali e a incastrare i malviventi. Quando si verifica un furto in un’abitazione inviamo sempre l’equivalente della polizia scientifica. Sia per individuare eventuali tracce che possano farci risalire agli autori del colpo, sia per manifestare la vicinanza dei carabinieri al cittadino che non si deve mai sentire solo».
Negli ultimi tempi si sta diffondendo la moda, da parte dei cosiddetti cantanti neomelodici, di girare videoclip che inneggiano alla criminalità e alla violenza. La loro difesa? Descriviamo solo situazioni reali. Quanto sono reali?
«Il fenomeno meriterebbe un approfondimento sociologico più che repressivo e, forse, non spetta a me rispondere alla domanda. Noi veniamo indicati, nei testi delle canzoni, come responsabili o autori di situazioni negative. E questo non ci fa piacere».
Baby gang. Un fenomeno da non sottovalutare anche perché molti ragazzi aggrediti non denunciano, soprattutto nei luoghi della movida.
«Più che baby gang ad entrare in azione mi sembrano gruppi che occasionalmente si ritrovano e aggrediscono, picchiano o rapinano i coetanei. Abbiamo comunque intensificato i controlli nelle ore e nei posti più frequentati dai giovani. La collaborazione dei cittadini, però, nel segnalare gli episodi è indispensabile per non vanificare il nostro lavoro».
C’è sempre qualcuno pronto a riprendere una scena col telefonino. Oggi al carabiniere in servizio per strada viene chiesta più professionalità rispetto al passato o un nuovo modo di pensare e di operare. È così?
«Non è il telefonino che ci fa cambiare il modo di operare. L’unico strumento valido resta la professionalità perché ci insegnano il rispetto delle regole che conosciamo benissimo».
Come si toglie la linfa vitale alle organizzazioni criminali?
«Interrompendo il ricambio generazionale, sottraendo la manovalanza dei più giovani, diffondendo la cultura della legalità. Noi cerchiamo di proporre un modello diverso da quello della repressione. E molte mamme dei quartieri difficili lo hanno capito. Al Redentore e nella città vecchia affidano i figli agli oratori e alle parrocchie, con la speranza di poter assicurare ai figli una vita diversa rispetto a quella dei genitori».