Dice di non volere «un clima da stadio», la presidente Maria Elisabetta Casellati. E invece a Palazzo Madama succede di tutto: grida, fischietti, sospensioni, nemmeno fosse la finale di Wembley. Niente di cui sorprendersi, comunque. Dopo un «parto» di otto mesi, il ddl Zan approda in Senato con addosso l’aura della madre di tutte le battaglie. In fondo ci sono mille partite che si giocano in una: c’è da rodare il nuovo asse Lega-Italia viva, c’è da valutare la forza d’urto del centrosinistra, c’è da capire cosa faranno i cattolici, c’è da far passare un provvedimento che ha scomodato piazze, cantanti, influencer e perfino il Vaticano con tanto di storico richiamo al Concordato.
L’attesa è di quelle trepidanti e, si capirà subito, ben riposte. Pronti, via e si blocca tutto: la Lega, forte del tacito accordo con Italia viva, chiede ossigeno per poter mediare ancora, la Casellati-Donnarumma coglie la palla al balzo e convoca la Capigruppo. Urla, fischi, grida. «I Mondiali, anzi gli Europei li abbiamo già vinti», tuona la presidente. Parte la riunione e tutti sono pronti a giurare che la lunga marcia del ddl Zan stia sfiorendo in un ritorno in Commissione. E, invece, ore dopo ricomincia la discussione. Cosa è cambiato? Assolutamente nulla, è la risposta dei deputati interpellati dalla agenzie.
In realtà non è proprio così: scongiurato il blocco, in cui molti riponevano le proprie speranze, uno dopo l’altro i partiti vengono allo scoperto. La trama è sul tavolo. Pd e M5S tirano dritto per far passare il testo così com’è, senza potature né rinvii, cercando contestualmente di inchiodare i renziani alle proprie responsabilità. Questi ultimi, d’altra parte, continuano a richiamare la necessità di una mediazione sugli aspetti più controversi, altrimenti, è il ritornello, «mancano i numeri».
È sottile la mossa renziana perché, qualora il testo venisse depurato e fosse approvato dalla quasi totalità dell’Aula, il senatore di Rignano sull’Arno potrebbe appuntarsi un’altra coccarda. Dopo quella draghiana («l’ho portato io»), quella arcobaleno («il disegno di legge è passato grazie a me che mi sono sporcato le mani»). Naturalmente, il gioco che si sviluppa lungo l’asse Lega-Iv è più grande di così e ha un bell’affaccio sul Quirinale, ma queste sono storie di domani. Conta l’oggi. Matteo Salvini, da parte sua, continua a battere sul tasto della libertà di espressione e di educazione, invitando a potare il provvedimento.
Così si salda l’asse dei due Matteo che manda su tutte le furie i giallorossi. Pd e M5S non cedono. Per principio, innanzitutto, perché il testo è passato integralmente alla Camera e, dunque, è così che dovrà passare al Senato. Per spezzare l’asse Salvini-Renzi, costringendo quest’ultimo a rinunciare ai tatticismi o a gettare la maschera. E infine perché l’impressione dall’esterno è che agli ultras del ddl stiano molto più a cuore gli aspetti controversi di quelli universalmente accettati. Una forma di fanatismo ideologico, direbbero alcuni. Di sicuro un errore tattico di cui ci si potrebbe rendere conto semplicemente leggendo i giornali degli ultimi mesi. O anche solo degli ultimi giorni.
La riforma del processo penale, passata in Cdm, è una triangolazione al ribasso fra i desiderata dalla Guardasigilli Cartabia, le richieste dei garantisti e il pugni sul tavolo dei giustizialisti. Un ircocervo di cui è difficile riconoscere la paternità. Colpa di chi?
Di nessuno. Se si mette in piedi un governo che va da Leu alla Lega, forse, è fatale che ogni provvedimento approvato sia una copia sbiadita della pensata originale. Finora gli ortodossi di ogni foggia e colore sono finiti al tappeto. E, dall’aria che tira, non sembra che finirà diversamente nemmeno questa volta.