Santo Spirito, oggi frazione di Bari, dopo essere stata sobborgo marinaro di Bitonto e parte del suo territorio, come testimonia il torrazzo detto «Titolo» che lo separa dalla frazione di Bari detta Palese, ebbe una sua giornata particolare, un suo momento di fragore storico, assunse la monumentale, se pur caduca, visibilità durante la Prima guerra mondiale. Così, almeno, mi raccontavano coloro che c’erano o quelli che, meno giovani di me, se l’erano sentito raccontare.
Andò che, durante una scorreria adriatica nel 1916 o 1917, (anelo che un lettore attento alle storie patrie mi ragguagliasse) una cannoniera della Marina austroungarica aveva sparacchiato contro il pacifico borgo marinaro, terrorizzando pescatori, vecchiette, donne alla fontanella e due «pelose» in amore sulla battigia. Tutti i Baresi sanno essere le «pelose» sorta di granchi di buona taglia che, un tempo, bazzicavano numerosi e felici sulle spiagge della costa provinciale, alternandosi ai polpi nel dominio degli anfratti e delle buche negli scogli. Dalla loro millenaria ostilità derivava la pratica dei pescatori che si dedicavano alla «Jacca», sorta di complicata notturna caccia al polpo per il tramite di un granchio che si dimenava legato ad una canna a far da esca e di un retino insidioso sotto la luce accecante dell’acetilene. Ebbene, i crostacei testimoni di quel giorno storico sospesero la intensa luna di miele e corsero di sbieco a rintanarsi sotto un sasso muschiato spiando quella pagina di Storia degli uomini che con tanto fracasso si spalancava davanti ai loro occhietti mobili e vispi. Altrettanto si spaventarono donne alla fontana e pescatori occupati a rinacciare le reti sotto il sole, i bambini a scuola e quelli intenti a marinarla, il postino girovago tra le bouganville e i gelsomini delle stradicciole assolate e il pievano che diede di piglio alle campane dell’unica chiesa sullo stradone.
Le cannonate durarono poco: qualche salva rombante e piena d’echi che si rincorrevano sul mare appena increspato dal leggero Maestrale e, poi, silenzio. Il naviglio s’allontanò e ai granchi sembrò di sentire lontanissimo e soffuso il rombo delle vaporiere.
Al concorso di popolo intimidito da Madama Storia che era venuta a visitarli con tanto sontuoso e marziale clamore e che si raccolse nei pressi del porticciolo naturale, apparve subito perentorio domandarsi cosa potesse volere l’Aquila bicipite dalla pacifica popolazione di pescatori, donne alla fontana, bambini squagliasole, granchi, polpi, qualche cefalo, triglie veloci, goggioni vari, saraghi e altri fratelli marini. Molto si comprese quando qualcuno lamentò i danni non gravi, di quella subitanea incursione che fecero individuare il probabile obiettivo della artiglieria navale austroungarica: una villa annidata su di una minima altura ornata da un agrumeto profumato misto a pini, gelsomini e fichi generosi, una villa sul viale della stazione dei treni, peraltro poco distante. La beata residenza era di color rosa intenso e spiccava con la sua torretta panoramica con tanto di banderuola di latta e abbaini nel verde della vegetazione mediterranea.
I solerti artiglieri dell’imperatore l’avevano presa, per via di quel festoso colore, per la stazione ferroviaria e avevano tentato di danneggiare i traffici del sud Italia. La povera Villa Spinelli resistette valorosamente e con la villa resistettero, impavidi, granchi, polpi, saraghi, triglie, gelsomini e bouganville, fichi e bambini, pievani e pescatori, donne alla fontana e muri a secco del mio adorato, bellissimo borgo marinaro. La guerra finì e fu vinta dall’Italia e, quindi, anche da Santo Spirito, allora frazione di Bitonto.
La notizia non raggiunse gli anfratti marini e le pelose continuarono a riprodursi pacificamente ignorando il trattato di Versailles e nessuno più bombardò Santo Spirito. Fino alla pece che piombò su spiagge e case e spiagge e mare lanciata con terrificante casualità di bersaglio dalle esplosioni del porto di Bari. Altri tempi corrucciati, altri attacchi, altra, soprattutto, guerra.
Granchi, polpi, saraghi, triglie, gelsomini e bouganville, fichi e bambini, pievani e pescatori, donne alla fontana e muri a secco del mio adorato, bellissimo borgo marinaro restarono inebetiti sotto quella pioggia viscida e nera nella malinconia di un lunghissimo tramonto. Quella pece durò per decenni con la sua esiziale tenacia velenosa e la rintracciavamo sui nostri piedi e sulle nostre mani come l’avvertimento che le guerre si possono sempre ricominciare.
Ma, poi, con gli anni del benessere, una guerra spaventosa fu scatenata: saccheggiarono il mare, devastarono gli scogli con bombe più micidiali dell’artiglieria austroungarica, cementificarono le coste, rubarono spiagge per farne trattorie rabberciate o sciale magnificate inutilmente dove, peraltro, si mangiava modestamente, azzannarono la vegetazione. Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato sviluppo.
E la guerra ebbe un epilogo pasticciato: si chiamava porto turistico per natanti privati. Non so quale fine abbia fatto. Ho girato la testa da un’altra parte. Ho guardato verso il Caffè che si chiama «Qui si gode» che era anche stazioncina del tram elettrico che collegava Bitonto alla «sua» Santo Spirito. Ma quel trenino fu annichilito dal bombardamento della speculazione. Anche le «pelose» non ci sono più, la vegetazione residua agonizza intorno a poche ville sopravvissute, il mare è triste e rassegnato, il paesaggio malinconico somiglia a tutti gli altri innumerevoli retorici panorami di grigiore cementizio, o dei suoi ruderi, dell’Adriatico.
Adesso stiamo per assistere alla ristrutturazione del profilo urbanistico con parcheggi fantasiosi e invadenti corsie per biciclette e monopattini micidiali, deviazioni incomprensibili del traffico automobilistico, pedonalizzazioni complicatissime e, addirittura, installazioni di alberi, di alberi! sul margine della spiaggia, nella cornice di pietra e asfalto dove, oggi, ancora si può passeggiare.
Qualcuno li fermerà? Verrebbe voglia di avere una regia-imperial cannoniera. State tranquilli: per chiedere aiuto ed essere sbarcati nel passato.