I due erano molto di più che assi del pallone. Paolo Rossi (1956-2020) era l’Italia. Diego Armando Maradona (1960-2020) era l’Argentina. Le loro biografie rappresentavano e rappresentano tuttora, più di qualunque saggio ad hoc, le più aderenti autobiografie delle loro rispettive nazioni. Rossi era l’Italia che progrediva alla meglio mentre oggi indietreggia alla peggio. Rossi era l’Italia che giocava di intelligenza e di rimessa, e che però alla fine della gara portava a casa i punti che servivano.
Rossi era l’Italia del valore aggiunto, l’Italia del gusto e della buona educazione, dello stile e del sorriso. In fondo, solo utilizzando il cervello più delle sue gracili gambe, un ragazzo così così poteva diventare Pablito, il match-winner del mondiale spagnolo (1982) consegnato alla gloria patria nei secoli dei secoli.
Rossi era anche l’Italia della politica anti-muscolare, quella che ai comizi preferisce i caminetti, che alle pose gladiatorie antepone il guizzo della soluzione inattesa, semplice, rapinosa e onesta insieme. Rossi era un esemplare democratico di rito europeo. Non alzava mai la voce e se si fosse andato al voto per stabilire la graduatoria dei tipi più affidabili e amati nello sport lui avrebbe vinto con largo distacco.
Tutt’altra roba Maradona. Il Pibe de Oro era l’impersonificazione di un dio pagano in terra. Volubile, capriccioso, inafferrabile, insofferente, capace di tutto, nel bene e nel male. Anche lui, Dieguito, come Pablito, era callido in campo, ma di un’astuzia plateale e esibita, mai defilata, vedi il gol rubato con la mano all’Inghilterra nella controversa partita del 1986.
E poi. Tanto Rossi era un testimonial di democrazia mite, soft, tanto Maradona era un simbolo di democrazia dura, hard, autoritaria. Le amicizie politiche e le mitologie ideologiche del fuoriclasse argentino equivalevano a un manifesto ideologico: Fidel Castro (1926-2016), Hugo Chavez (1954-2013), Nicolàs Maduro (1962), Che Guevara (1928-1967). Ossia riproducevano sul terreno, nello spogliatoio e nelle esibizioni pubbliche, il meglio del peggio del peronismo sudamericano, dove il caudillo o il cacicco o il comandante sono tutto: il Potere e la Rivoluzione, il Fascino e la Rendenzione, la Divinità e il Demonio.
Maradona metteva d’accordo l’intero arco costituzionale sudamericano, storicamente ed essenzialmente diviso tra peronisti di destra e peronisti di sinistra. Per questo la sua dipartita ha scatenato e collezionato più lacrime della scomparsa di qualunque altra icona pop contemporanea.
In fondo, il leader mondiale del populismo era lui, l’uomo che a Napoli si fece capopopolo e che in America Latina si fece leggenda. Se l’America Latina resta tuttora la serra calda del populismo globale servito in innumerevoli pietanze per i gusti degli avventori, non poteva che essere DAM l’eroe eponimo, inafferrabile e sregolato, anti-legalitario e protestatario, incontrollabile e incontenibile. Se si fosse candidato alle elezioni, in Argentina, Maradona avrebbe stravinto a man bassa, candidandosi ad offuscare anche la dea più pianta e rimpianta: Evita Peròn (1919-1952) , la madonna dei descamisados.
E Rossi? Rossi non era l’autodistruttiva Italia d’oggi. E non era neppure la rinascente Italia degli anni Ottanta, che a fatica cercava di affrancarsi dalla sanguinosa tenaglia terroristica. Rossi era l’Italia del suo certificato di nascita (1956), era l’Italia che stava vivendo la stagione più straordinaria della propria storia, era l’Italia che si apprestava, di lì a pochi anni, a conquistare un altro titolo mondiale (l’Oscar della moneta) e a assaporare la gioia piena del miracolo economico.
Rossi somigliava a quell’Italia: paziente e tollerante, industriosa ed estrosa, aperta al mondo e diffidente dei superomismi, attenta a calibrare il tipo di gioco (produttivo) sulle caratteristiche della più scafata concorrenza internazionale. Somigliava, l’Italia anni 50 dei Rossi, a quella nazionale italiana femmina esaltata da Gianni Brera (1919-1992), che adoperando la testa riusciva a mandare fuori di testa pure i competitori più attrezzati.
La fenomenologia di Paolo Rossi ci riporta a quell’Italia, all’Italia priva di debiti, colma di commesse per lavori pubblici, ed effervescente di spunti nell’iniziativa privata. Viceversa, la fenomenologia di Maradona ci riporta dritti dritti al Sudamerica che proprio negli anni Cinquanta abbracciava, invece, il peronismo e la sua musa per non svincolarsene mai più, condannandosi così a un naufragio fatto di miserie, golpe, insurrezioni, rivoluzioni e recriminazioni da cui non è più riemerso.
Eppure, come testimoniano le cronache post-mortem, Maradona esercita da sempre un’attrazione (fatale) sconosciuta alle altre superstar del globo. Anche in Italia. Lui esprime e diffonde l’ebbrezza dell’irresponsabilità contrapposta alla monotonia del senso di responsabilità. Tuttora Diego resta un cocktail di redenzione e rivoluzione, da centellinare ai milioni, o miliardi, di adoratori sparsi sulla Terra. Batti e ribatti, siamo sempre lì: populismo contro democraticismo, con Maradona e Rossi, indirettamente, al centro della scena. Dipenderà da noi se sceglieremo di finire nel girone infernale sudamericano, i cui tentacoli non vogliono rinunciare a strozzare l’America del Nord, o invece restare agganciati all’Europa. Il populismo incarnato dai Maradona è seducente, ma ha partorito povertà, disuguaglianze e autoritarismi. Molto meglio la filosofia di gioco e di vita, che ha per simboli i Paolorossi della Penisola. In questo modo si vince senza correre il rischio di precipitare negli inferi della Terra. E anche la pandemia si batte più giocando d’anticipo alla Rossi che aspettando l’illusoria prodezza di Maradona.