È inutile girarci intorno. Uno dei problemi più importanti che assillano gli italiani è il rapporto con la politica. Si va dall’assoluta indifferenza al sistema politico, testimoniata dal 40% di astensioni che si registrano sistematicamente alle elezioni politiche ed amministrative, al confronto duro, violento e radicale di quelli che partecipano alla vita politica nel Paese. Una radicalizzazione comportamentale che ha forse ragioni profonde a causa delle nostre abitudini consolidate.
Abitudini paradossalmente non ben comprese nemmeno dagli italiani stessi. Il disprezzo della politica "tout court” senza attenuante alcuna, è comune anche ad altri Paesi e si è diffuso profondamente con l’esplosione del populismo che ne ha fatto una suo chiodo fisso. Non avremmo, secondo questi nuovi profeti di sventura che minacciano il difficile equilibrio sociale delle società occidentali con i loro anatemi diffusi dai media e dai social senza alcun filtro, alcun bisogno di una rappresentanza politica. Il popolo da solo senza intermediari di nessun genere, secondo la vulgata corrente, è capace di darsi un sistema di regole necessarie al governo della società. E’ questa la teoria della “democrazia diretta” che funesta l’umanità non da oggi, ma almeno dai tempi della Rivoluzione Francese.
Questa teoria immagina la società come un corpo unico, compatto e con gli stessi interessi che abbisognano solo di un modo di espressione per la loro realizzazione. Il concetto della diversità degli obiettivi , delle contrastanti aspirazioni individuali e delle differenti visioni della realtà, che dovrebbero spingere al contrario alla tolleranza nei rapporti umani, viene soppresso in nome dell’unità imposta da una visione olistica tesa a livellare le differenze. Per loro l’idea che la politica debba essere mediazione, confronto, compromesso, ricerca del possibile e del realizzabile è pura bestemmia. Evidentemente in questa cornice il “capo”, il “conducator”, il “duce” o semplicemente l’uomo della folla ha un ruolo fondamentale. E’ lui quello che esprime il bisogno ed i desideri del popolo ed è a lui che bisogna fare riferimento per la conduzione della società.
Ed è a causa di questa impostazione che riaffiora, anche nel campo di quelli che discutono di politica, la tentazione di affidarsi ad un “leader” piuttosto che al coinvolgimento, all’educazione della folla, alla spiegazione razionale delle decisioni, non sempre facili ed addirittura impopolari ma necessarie per il bene comune. E’ da qui che nascono i toni accesi e radicali dello scontro politico in atto. Tendiamo a non discutere più sul che cosa fare e sul come fare per ottenere un risultato, ma tendiamo a coinvolgere il “popolo” solo contro qualcuno, contro il leader avversario ritenuto spesso “il nemico”. Non si vota o si sceglie un programma , un obiettivo o meglio una “visione del futuro”. No. Si sceglie solo lo scontro contro qualcuno e spesso non sappiamo nemmeno le ragioni dello scontro. Spesso i “leaders” che si impongono sembrano assomigliarsi come riflessi in uno specchio e diventano persino indistinguibili gli uni dagli altri. Le elezioni non sono più un sistema per la ricerca della autorevolezza, della competenza, della esperienza passata.
Richiamo - Tutto questo non conta più nulla. Conta solo il richiamo canino della voce del padrone che incita alla battaglia contro gli oppositori con il solo vincolo della fedeltà al capo, non della lealtà. E’ come essere al Palio di Siena. Bisogna vincere ad ogni costo con le buone o le cattive maniere solo per tenere alto il nome della propria contrada. La ragione sembra espunta da tutto questo processo. Questo comportamento intrinsecamente altalenante dell’opinione pubblica, provoca la volatilità del voto elettorale. Tutto diventa indistinguibile, poco solido e coerente in nome delle cangianti necessità e della continua rimodulazione degli stereotipi politici. La bussola insomma cambia continuamente direzione e tutti vi si devono adeguare anche senza capirne le ragioni.
E’ insomma la tentazione di concepire la politica come selezione del “leader” piuttosto che come selezione di valori e programmi, a causare l’instabilità del sistema politico. Il leaderismo ed il populismo sono le risposte sbagliate che il Paese cerca per uscire dalla confusione in cui si è cacciato. Questo non significa ovviamente che la democrazia liberale non abbia bisogno di leaders. Anzi, in questo sistema, la selezione di persone carismatiche capaci di interpretare il senso della evoluzione politica , è essenziale. Ma il leader per riuscire nell’intento deve poter contare su un consenso implicito nel voto popolare. Non si può realizzare nessun programma se quel programma non è sostenuto anche inconsapevolmente dall’elettorato.
Abbiamo insomma bisogno di maggiore e più equilibrata informazione che non sia legata al “territorio”, di un uditorio abbastanza evoluto culturalmente e scolasticamente capace di intuire i problemi sul tappeto, di istituzioni capaci di stimolare la critica, il dissenso, la ricerca dell’ignoto, la voglia di intraprendere e la capacità di affrontare il futuro. Tutti i migliori leader dell’Occidente a cominciare da Churchill, hanno avuto successo perché l’Inghilterra di allora voleva salvare la tenuta della civiltà occidentale , la democrazia ed il rispetto della legge, non la posizione del più forte. E’ quindi con l’istruzione, con la lettura, con il dibattito intelligente e con la riflessione critica che le democrazie liberali potranno sostenere la sfida del futuro. Solo la diffusione della cultura ed una informazione più profonda nei contenuti, possono aiutarci nel difficile compito. Dobbiamo tornare all’idea che la politica è l’arte del possibile per la realizzazione del buon governo, che significa il benessere per la comunità ed il rispetto per l’uomo. Non c’è altra soluzione se vogliamo preservare la libertà e la democrazia liberale.