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Il riscatto meridionale è la prima Riforma

 
Giuseppe De Tomaso

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Giuseppe De Tomaso

Il riscatto meridionale è la prima Riforma

Il Mezzogiorno e il suo riscatto come primo obiettivo delle riforme. L’Italia è sotto osservazione in Europa: gli investimenti sul Sud sono in questo momento la prima vera riforma indispensabile per il Paese

Domenica 26 Luglio 2020, 16:02

Non esistono aiuti senza condizioni. Gli Stati Uniti, nel dopoguerra, riempirono di dollari gli stati europei a patto che non mollassero l’economia di mercato e non associassero i comunisti ai governi nazionali. La stessa Comunità Europea, dalla nascita, è venuta incontro alle esigenze dei partner più deboli a condizione di poterne controllare le spese interne. Ogni banca, prima di finanziare una persona, vuole sapere dove e per cosa saranno impiegati i soldi richiesti. Nessuno è così incosciente da non interessarsi all’utilizzo dei prestiti da lui elargiti. Informarsi o pre-informarsi non è soltanto è un suo diritto, ma è, innanzitutto, un suo preciso dovere. Anzi, se un errore è stato fatto finora, nelle diverse politiche di sostegno, questo errore va indicato proprio nella disattenta indulgenza con la quale sono stati concessi e monitorati alcuni tipi di aiuti. Ossia: per decenni i finanziatori hanno posto poche condizioni, pochi vincoli ai piani dei finanziati, col risultato, ad esempio, di alimentare quel sentimento di irresponsabilità che ha generato il boom del debito pubblico.

La stessa Lega che oggi capeggia il fronte del no alle condizioni stabilite dall’Europa per la concessione di prestiti e sussidi, ha sempre ragionato in modo «frugale» quando si è discusso degli aiuti al Sud. Anche adesso, per le politiche di coesione nazionale, è collocata su questa linea. Che cos’è la richiesta di autonomia differenziata per le Regioni del Nord se non la pretesa di ridurre i fondi al Sud, considerato incapace di spendere come si deve? Evidentemente c’è sempre un’Olanda di troppo in giro per il globo. Il Lombardo-Veneto si comporta verso il Meridione d’Italia esattamente come fanno i Paesi Bassi verso tutta la Penisola. Nulla di più. Nulla di meno.

E però. E però i vincoli, nel rapporto tra le nazioni, sono ineliminabili, come la morte e le tasse fra gli esseri umani. Se l’Europa pone all’Italia la condizione di varare le riforme prima di poter accedere alla cassaforte del Recovery Fund, dovremmo prenderne atto a ringraziarla per la lezione ricevuta. Più vincoli ci sono a vantaggio del buongoverno, meglio è.

Piuttosto. Perché l’Europa insiste, come un martello sull’incudine, nel sollecitare, a Roma, queste benedette riforme? Semplice: nella testa degli spiriti guida dell’Unione è inconcepibile che in una nazione convivano le aree più ricche e le aree più povere di un continente. Una nazione afflitta da una simile contraddizione costituisce un peso, una palla al piede, per l’intero consorzio europeo. Di conseguenza, prima si risolve la questione (meridionale), meglio sarebbe per tutti.

Ecco. Quando incalza l’Italia sul tema delle riforme, l’Europa non sta pensando ad altro se non all’eliminazione, o alla riduzione, del divario Nord-Sud nel Belpaese. È questa la madre di tutte le riforme, per i pensatoi di Bruxelles, Berlino e Francoforte. La fine della questione meridionale viene ritenuta, colà, l’unica vera Grande Riforma in grado di lanciare l’Italia sull’Olimpo delle divinità politico-economico-sociali. Il resto è relativo, è subalterno alla risoluzione del nostro principale problema nazionale.
Inutile girarci attorno. Nei programmi dei pianificatori europei i 209 miliardi di euro, tra prestiti e sussidi, assegnati all’Italia per fronteggiare l’emergenza economica provocata dal Coronavirus, dovrebbero servire innanzitutto a dotare il Mezzogiorno di infrastrutture materiali e immateriali degne di questo nome. Se così non fosse, pensano (non solo) a Bruxelles, la salute dello Stivale peggiorerebbe ancora, con effetti collaterali su quella dell’intera Unione.

Ma siccome il successo di ogni iniziativa dipende dal valore, dalla qualità degli ideatori ed esecutori, per il Sud (però il discorso vale anche per il restante territorio nazionale) si pone, si porrà una domanda cruciale. Chi avrà a Roma e nelle regioni la leadership di questa mega-operazione? Sarà l’ennesina task force di consulenti d’area o si cercherà di responsabilizzare la migliore tecnostruttura di cui dispone lo stato? E ancora: la cabina di regia cui sarà affidata la redazione degli interventi opterà per infrastrutture immateriali orientate a favorire l’intrapresa privata, o invece non si discosterà dall’andazzo degli ultimi lustri, caratterizzato dall’idea di trasformare gli imprenditori in prenditori, gli innovatori in pubblici ufficiali e gli organizzatori in funzionari iper-burocratizzati? Insomma: si solleticherà la voglia di libertà (responsabilità) o la domanda di protezione (assistenza)? Economia schumpeteriana o economia amministrata?

Il resoconto del recente passato non è incoraggiante. Purtroppo. Anziché evolvere verso politiche per l’industria (pochi e ben qualificati obiettivi), le politiche industriali sperimentate finore sono confluite nel solito serbatoio degli aiuti a pioggia, che il più delle volte hanno premiato i più bravi nel sostenere, nel finanziare le campagne elettorali dei futuri vincitori. Il che ha contribuito a cristallizzare il dislivello Nord-Sud, addirittura ad aggravarlo.

L’espressione Piano Marshall è più abusata di implementazione, fare sistema, fare squadra, intensificare l’internazionalizzazione, prima lo sviluppo del territorio, eccetera. Di questo passo si arriverà ad invocare un Piano Marshall anche per la costruzione di un asilo nido. Ma stavolta non si esagera quando, per i volumi finanziari, si paragona il Recovery Fund al Piano Marshall varato dagli Usa nel secondo dopoguerra. Il Piano Marshall funzionò alla grande, tanto che nessuno osa pensare cosa sarebbe accaduto se il presidente americano Harry Truman (1884-1972) avesse mantenuto la borsa chiusa. Ma quel piano produsse sviluppo e riscatto in Italia perché venne governato da una classe dirigente convertita alla cultura del risultato, e realizzato da imprenditori e lavoratori smaniosi di produrre e generare benessere anche per le successive generazioni.

È difficile convenire e riconoscere che oggi, con la cultura dei doveri soppiantata dalla cultura dei diritti, ci siano le medesime virtù comportamentali, culturali e ambientali e politiche del secondo dopoguerra. Il che rende meno ottimistica la previsione sugli effetti del Recovery Fund rispetto ai miracoli economici concimati dal Piano Marshall.

Il Sud è di nuovo la principale posta in gioco. L’Europa, per fortuna, vuole europeizzarlo anche sul Pil. Del resto, il Sud non è tutto uguale. Possiede al proprio interno, grazie alle sue aree di eccellenza, assai dinamiche, la ricetta e la risposta giuste per la crescita dell’intero Mezzogiorno. Peccato che alcuni in Italia vogliano frenare, cioè italianizzare, l’intera Europa.  

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