Segnatevi sul calendario la data di mercoledì 24 luglio. Potrebbe essere il giorno in cui molto probabilmente capiremo quale destino avrà il Governo nato dal contratto tra Lega e Cinque Stelle. Dopodomani il premier Conte riferirà in aula al Senato sulla vicenda dei presunti fondi russi al Carroccio. Un intervento che se da un lato serve al Presidente del Consiglio per dimostrare che tiene ad un rapporto leale con il Parlamento e che è un dovere assicurare trasparenza su una vicenda che continua a tenere banco nel discorso pubblico, dall’altro dovrebbe consentire all’intero esecutivo di sbarazzarsi di un caso che Salvini continua a considerare una “favola creata ad arte” per metterlo in difficoltà nel momento di massima ascesa.
Il Capitano dovrebbe intervenire dai banchi della Lega e non da quelli del Governo. Dovrebbe farlo per assicurare al dibattito parlamentare la propria versione dei fatti ed eventualmente per integrare, replicare se fosse necessario, rimarcare le parole pronunciate da Conte. È probabile che il giorno prima, cioè domani, ci sia un incontro chiarificatore tra lo stesso Salvini e Di Maio. Il quale nelle ultime ore ha maturato il sospetto che il suo alleato voglia staccare la spina non tanto perché a chiederglielo sia gran parte della Lega, quanto per evitare di tagliare il numero dei parlamentari. Chiusa la finestra del voto a settembre o ai primi di ottobre, si potrebbe chiedere agli italiani di tornare alle urne nella primavera del prossimo anno, sempre che il Presidente della Repubblica opti per questa soluzione in conseguenza di una crisi di governo che andrebbe comunque parlamentarizzata. Ipotesi quest’ultima che dovrebbe fare i conti, però, con la riforma della riduzione del numero di deputati e senatori. Riforma, fortemente voluta dai pentastellati, che non potrebbe consentire elezioni prima di giugno.
Secondo Di Maio, Salvini per non restare incastrato dentro questo perimetro diacronico che non gli darebbe la garanzia di mettere a frutto un consenso così in crescita, potrebbe optare per la crisi di governo. Mossa che gli consentirebbe di poter puntare (anche se non c’è alcuna garanzia che questo accada, atteso che sulla sua testa potrebbe pendere la spada di Damocle del Governo tecnico) su un Parlamento per lui più facile da gestire. Parlamento a cui, oltretutto, spetta l’elezione del prossimo Capo dello Stato. Attenzione, però. Rompere con i Cinque Stelle sulla vicenda Savoini significherebbe per il leader della Lega riconoscere pubblicamente una difficoltà giudiziaria, più che politica.
L’altro nodo da sciogliere è quello dell’autonomia. Com’è noto i Governatori leghisti di Lombardia e Veneto sono sul piede di guerra. Si sentono traditi dal Governo soprattutto sulla questione della mancata autonomia finanziaria. Fontana e Zaia hanno alzato le barricate di fronte all’ipotesi che questa riforma venga svuotata nei contenuti. I loro toni si sono alzati di molto (“cialtroneria”) e nel mirino è finito Conte, al punto che il premier è stato costretto a scrivere al Corriere una lettera per rivolgersi direttamente ai cittadini lombardi e veneti con l’intento di spiegare la complessità di un trasferimento di competenze legislative e amministrative dallo Stato alle Regioni e per evidenziare che egli ha coordinato un lavoro portato avanti insieme con tutti i Ministri, a partire da quelli leghisti. Erika Stefani in testa. Come dire: se sparate sul pianista, colpite anche i rappresentati leghisti del Governo. In questa occasione Conte ha anche sollevato la questione dell’inopportunità, dal punto di vista metodologico, di anticipare qualche singolo aspetto (il riferimento è a quelle questioni più spendibili dal punto di vista mediatico) ed ha affermato senza mezzi termini che non sarà possibile accogliere tutte le richieste, essendo indispensabile evitare la “scure della Corte Costituzionale”.
Queste parole sono sufficienti per togliere dalle mani di Salvini l’argomento del regionalismo differenziato come pretesto per rompere con i Cinque Stelle? Una risposta a questa domanda può essere ricercata solo se nell’analisi politica si evidenzi il fatto che il leader del Carroccio è alle prese con una questione di grande complessità. Avendo avviato (ma non ancora completato) il processo di trasformazione della Lega da movimento politico territoriale a partito nazionale, Salvini ha l’obbligo di rassicurare il Sud che la riforma dell’autonomia non è contro le regioni meridionali. Alle ultime europee il suo partito è cresciuto a livello nazionale grazie anche (o soprattutto?) ai voti degli elettori del Mezzogiorno che hanno creduto che la sua politica potesse rappresentare la soluzione ad alcuni problemi ed un collante tra le diverse aree geografiche. Tradire la loro fiducia sarebbe una mossa poco strategica per un partito che vuole diventare Lega nazionale. In fondo, le parole di Conte sull’autonomia avrebbero potuto aiutare Salvini a superare l’empasse, se non ci fosse stata la replica di Zaia e Fontana allo stesso premier. Con una lettera i governatori di Lombardia e Veneto, infatti, si sono detti feriti per le parole del Primo Ministro, sostenendo che queste due regioni vogliono una autonomia vera e non un pannicello caldo e che se permanessero le condizioni attuali, essi non firmerebbero il provvedimento. È legittimo a questo punto domandarsi se per Salvini sia più conveniente trovare una soluzione alla crisi o rompere con Conte e l’alleato di Governo.
Di Maio ripete in queste ore così convulse che se il vice premier leghista facesse chiarezza su Mosca lo metterebbe in condizione di difenderlo. Il capo politico dei Cinque Stelle ha infatti tutto l’interesse a non chiudere questa esperienza politica.
E ciò per completare il programma dell’Esecutivo e la riorganizzazione del Movimento, in modo da dare più forza all’ala governativa del M5S. Indispensabile, perciò, è fare chiarezza una volta per tutte. Il Governo è sospeso tra crisi e manovra. Entro il 27 settembre dovrà essere presentata la nota di aggiornamento al Def per rivedere le stime su crescita, deficit e debito. E per tracciare le linee programmatiche della legge di bilancio 2020 (da varare entro il 20 ottobre) che potrebbe oscillare tra i 35 e i 50 miliardi. Un’operazione assai delicata, se prendiamo in considerazione l’urgenza di rendere compatibili da un lato le entrate previste dal quadro di finanza pubblica così come desumibile dalla previsione dei risparmi su reddito di cittadinanza e quota cento, dalla spending review e dal taglio agli sconti fiscali; dall’altro la volontà di sterilizzare gli aumenti di Iva ed accise, di approvare la flat tax (in versione piena come vuole la Lega o in versione più morbida come propongono i pentastellati) e di procedere alla riduzione del cuneo fiscale. A questa situazione già piena di incognite, si aggiunga la difficoltà di individuare un candidato idoneo a ricoprire la carica di Commissario europeo alla Concorrenza dopo il forfait di Giorgetti. Un’occasione per provare a sanare la frattura tra Lega e Cinque Stelle registrata in occasione del voto per l’elezione della Presidente von der Leyen. Sempre che ci sia la voglia di una ripartenza. Magari con un rimpasto di Governo.