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Tolleranti e civili a prova di telescopio

 
Sergio Lorusso

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Sergio Lorusso

Tolleranti e civili a prova di telescopio

«Un’aggressione è di per sé punibile, ma diventa un reato più grave quando motivata dal fatto che l’aggredito sia un nero, un musulmano, un ebreo, un rumeno e via discorrendo»

Sabato 04 Agosto 2018, 15:57

Il mondo è come lo vedi. Accade così che, nel bel mezzo della torrida estate, il ministro Lorenzo Fontana colpisca ancora, questa volta attaccando la c.d. legge Mancino che punisce i comportamenti legati all’ideologia nazifascista finalizzati alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali (l. 25 giugno 1993, n. 205). Fontana, anzi, ne chiede l’abrogazione. ui ritiene che si sia «trasformata in una sponda normativa usata dai globalisti per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano».
Appare singolare, tuttavia, evocare un razzismo all’incontrario”, quello di alcuni italiani nei confronti dei loro connazionali e persino di loro stessi. Ogni opinione è legittima, ma sinceramente si fa fatica a comprendere (e a condividere) una siffatta interpretazione della realtà. Un manipolo di “nemici della patria” e i loro schiavi – tra cui, naturalmente, in prima fila vi sono giornalisti e commentatori mainstream, seguiti da alcuni partiti – starebbe attentando all’integrità e all’onore del popolo italiano, reo di non essere in linea con la retorica del pensiero unico. Si tratterebbe di una pericolosa arma ideologica appositamente congegnata per orientare le opinioni, per sopprimere l’identità e la storia degli italiani al fine di renderli strumentalizzabili.
Ora, che effettivamente esista questa arma di distruzione delle masse è alquanto improbabile. Tale affermazione sembra piuttosto evocare – al pari del riferimento ai «burattinai della retorica» – le tante teorie del complotto per la verità molto care ai soci di maggioranza del partito di cui il ministro è vicesegretario: dallo sbarco sulla Luna all’11 settembre, per non parlare delle gettonatissime scie chimiche. Ma, complottismi a parte, è proprio il risultato elettorale del 4 marzo a smentire la tesi: se il patto d’acciaio dei media mainstream e dei partiti politici cui sarebbero legati fosse realmente esistito e avesse plasmato le opinioni degli italiani come si spiega un risultato elettorale che ha premiato in maniera sensibile le attuali forze di governo? E se questo “contratto” ancora esiste ed opera, come mai i sondaggi danno a Movimento Cinque Stelle e Lega il sessanta per cento dei voti potenziali degli italiani?
La verità è un’altra, allora.
Non c’è nessun Grande Fratello che incombe sugli italiani e che vuole imporre un pensiero unico. Se mai, occorrerebbe aprire un dibattito sul peso dei media non tradizionali nella formazione delle opinioni di ciascuno. Non certo per sbandierare un passatismo fuori luogo (e fuori tempo), ma per meglio comprendere le dinamiche, non sempre trasparenti, che sottendono a quelli che sono inevitabilmente destinati a divenire gli strumenti di comunicazione primari – se non esclusivi – dei prossimi anni. È di questi giorni la notizia dell’attacco perpetrato via web nei confronti di Sergio Mattarella la notte successiva al suo rifiuto di nominare Paolo Savona ministro dell’Economia, mediante la creazione di 400 profili Twitter, riconducibili ad un’unica fonte (russa?), che hanno inondato la rete di messaggi nei quali si chiedeva al Presidente della Repubblica di dimettersi. E ieri abbiamo appreso da il Fatto Quotidiano che partiti e movimenti risultati vincitori nell’ultima tornata elettorale si sono avvalsi di fabbriche di troll, organizzazioni che operano on line diffondendo messaggi provocatori e fake news o creando profili fasulli, riconducibili a falsi influencer, interferendo così nei processi di informazione e comunicazione.
Diradate le nubi su possibili presenze orwelliane, resta il cuore della questione posta dal ministro, forse nell’ambito della ricerca di un profilo identitario “forte” nell’attuale compagine governativa o comunque di una visibilità che certo non gli difetta. Anche a costo di rimanere praticamente solo, com’è accaduto questa volta con le nette prese di posizione di Giuseppe Conte, Luigi Di Maio e (pur se in maniera più sfumata) Matteo Salvini.
La legge Mancino si propone – tra l’altro - di reprimere i crimini violenti generati dall’odio. Un’aggressione è di per sé punibile, ma diventa un reato più grave quando motivata dal fatto che l’aggredito sia un nero, un musulmano, un ebreo, un rumeno e via discorrendo. La vittima viene “punita” per il solo fatto di appartenere ad un gruppo odiato dall’aggressore, il cui scopo è quello di logorare o annientare l’identità sociale dell’aggredito.
Dunque, niente pensiero unico, anzi.
Nessuna soppressione delle identità personali o sociali, in nome del globalismo, parola alla moda che non vuol dire certo negazione delle diversità e delle specificità di popoli e individui.
Quanto, infine, a quella parte della legge Mancino che punisce l’incitamento alla discriminazione o alla violenza e la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, basti ricordare che non è altro che la proiezione della visione del liberalismo classico del XVII secolo a proposito di libertà di manifestazione del pensiero, secondo cui le idee che incitano apertamente alla violenza e alla discriminazione non debbono godere, per ovvie ragioni, della medesima tutela apprestata per tutte le altre opinioni.
Indro Montanelli, giornalista di grande pragmatismo, scriveva: «Siamo tolleranti e civili, noi italiani, nei confronti di tutti i diversi. Neri, rossi, gialli. Specie quando si trovano lontano, a distanza telescopica da noi». Oggi, piuttosto che assecondare (o amplificare) quest’inclinazione, occorrerebbe contrastarla. A tutti i livelli.

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